lunedì 29 giugno 2009

Crisi economica e riarmo mondiale, nessun reset in vista

Ritorniamo ancora sulla crisi economica in corso e sulle conseguenze che ha già provocato.
Nella speranza vana di un (auto)reset del sistema, che non avverrà mai.


I pericoli della cartolarizzazione: la più grande truffa di tutti i tempi
di Mike Whitney - Global Research - 11 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Marina Gerenzani

È possibile fare centinaia di miliardi di dollari di profitti su titoli che si appoggiano solo alle entrate virtuali di un loan book?

Non solo è possibile, ma è stato fatto. E al momento, i furfanti che hanno fatto profitti con questo imbroglio, fanno la coda fuori dagli edifici della Riserva Federale per scambiare i loro titoli marci con miliardi di dollari di prestiti finanziati dai contribuenti. Nel frattempo, il crollo del credito ha lasciato il sistema finanziario in rovina e piantato l'economia come il picchetto di una tenda. Le file dei disoccupati si allungano e i consumatori riducono il budget su tutto, dalle uscite agli spostamenti, fino ai generi alimentari. E tutto questo si deve alla truffa finanziaria piramidale tramata a Wall Street e che si è diffusa in tutto il sistema mondiale come un'epidemia di influenza. Questa non è una recessione normale; il sistema finanziario è esploso per colpa di banchieri avidi che si sono serviti dell' “Innovazione finanziaria” per storpiare il sistema e hanno gonfiato la più grossa bolla speculativa di tutti i tempi. E l'hanno fatto in piena legalità, usando un procedimento poco conosciuto che si chiama cartolarizzazione.

La cartolarizzazione -che è la conversione di fondi di prestito comuni in titoli venduti sul secondo mercato [NdT: mercato destinato a soddisfare le esigenze di crescita delle piccole e medie imprese, assicurando un adeguato spessore alle contrattazioni, senza fare venire meno quelle esigenze di tutela del risparmio che devono sempre essere garantite in ogni tipo di mercato]- fornisce il modo d'esercitare un leverage sui debiti. Le banche si servono di operazioni fuori bilancio per creare titoli che permettano di evitare le obbligazioni normali di riserva e le operazioni di controllo scomode.Per quanto possa sembrare strano, la qualità dei prestiti non è presa in considerazione, poiché le banche guadagnano denaro sulla creazione di prestiti e altre commissioni. Ciò che importa è la quantità, la quantità e ancora la quantità: una linea d'assemblaggio di prestiti nauseabondi riversati su investitori fiduciosi per far crescere i risultati. Caspita! com'è facile per Wall Street ammucchiare uno dopo l’altro questi documenti marci quando non c'è nessuno che controlla e la FED gioca alle ragazze pon-pon dalla tribuna!! In un'analisi dell'economista Gary Gorton, realizzata per la conferenza del 2009 della Banca Federale di Atlanta sui mercati finanziari e intitolata: “Schiaffeggiato dalla Mano Invisibile: il Settore Bancario e il Panico del 2007” ["Slapped in the Face by the Invisible Hand; Banking and the Panic of 2007"], l'autore mostra che i titoli legati ai valori ipotecari hanno conosciuto un vero e proprio gonfiamento, passando da 492,6 miliardi di dollari nel 1996 a 3.071,1 miliardi di dollari nel 2006. In totale, più di 20 trilioni [1 trilione = 1.000 miliardi n.d.t.] di dollari di debito cartolarizzato sono stati venduti tra il 1997 e il 2007. Quanto di questo debito si rivelerà senza valore man mano che i pignoramenti saliranno alle stelle e che i bilanci delle banche saranno sempre più sotto pressione?

La deregolamentazione ha aperto il vaso di Pandora, liberando uno strano insieme di operazioni oscure fuori bilancio (SPV, SIV) [1] e di derivati sospettosi dai nomi strani che erano usati per amplificare il leverage e accatastare debito su frammenti di capitale sempre più piccoli. È facile fare soldi quando non si scommette con il proprio denaro! È così che i dirigenti dei fondi speculativi e i furbetti dei fondi d'investimento privato diventano ricchi. La cartolarizzazione ha dato alle banche l'occasione d'accordare prestiti di cattiva qualità a chi prende prestiti che non aveva nessun modo di rimborsarli e la possibilità di trasformarli per magia in titoli AAA. “Abracadabra!” Tutti gli agenti di relazioni pubbliche di Wall Street hanno gridato ai quattro venti che la cartolarizzazione “democratizzava” il credito, perché un maggior numero di persone poteva avere prestiti a tassi migliori, dato che il finanziamento veniva dagli investitori, invece che dalle banche. Ma erano tutte frottole. Il vero obiettivo era di ottenere profitti colossali prelevando salari e bonus enormi all'inizio, prima che le persone si accorgessero di essere state ingannate. L'antico capo del FDIC [La Federal Deposit Insurance Corporation, che preserva e favorisce la fiducia popolare nel sistema finanziario statunitense n.d.t.], William Seidman, aveva già capito tutto nel 1993, quando aveva arraffato la posta in gioco dopo il fiasco dei prestiti e del risparmio. Ecco ciò che diceva nelle sue memorie:

“Date come istruzione ai regolatori di cercare il nuovo entusiasmo nell'industria e di esaminarlo con attenzione. Il prossimo errore sarà un nuovo modo di accordare un prestito che non sarà rimborsato.”

In poche parole, le banche non hanno mai sperato che i prestiti venissero rimborsati, e questo spiega perché li hanno accordati a chi li chiedeva pur non avendo un reddito, una garanzia, un lavoro e con un brutto dossier bancario. Tutto questo non aveva nessun senso, in particolare per chiunque si fosse mai seduto per controllare il proprio profilo di richiedente davanti a un banchiere sprezzante. Credetemi, i banchieri sanno come recuperare i propri soldi, se davvero lo vogliono! In questo caso, ciò non aveva importanza. Volevano solo mantenere a pieno regime il più a lungo possibile il loro racket di moneta falsa. Nel frattempo, il Maestro Greenspan incoraggiava queste ragazze pon-pon dalla linea laterale, tessendo le lodi della “nuova economia” e dell'alto livello di prosperità raggiunto grazie al capitalismo del laissez-faire. Perché qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi di ciò che pensava Greenspan? Tanto la FED non è altro che una filiale del cartello bancario.

Ora che la bolla della cartolarizzazione è scoppiata, il 40% del credito che era colato nell'economia è stato soppresso, dando luogo a un crack della borsa come negli anni '30. Il presidente della FED, Greenspan, è stato sostituito in fretta da Bernanke, che ha fornito una protezione di 13 trilioni di dollari per impedire il crollo del sistema finanziario, ma l'economia ha continuato a scendere in picchiata. Bernanke cerca di tappare l'abisso apertosi quando la cartolarizzazione si è fermata brutalmente e il gas ha cominciato a scappare dalla bolla di credito con gran fracasso. L'aumento è in corso, nonostante i numerosi programmi della FED per far andare su di giri la cartolarizzazione e restaurare l'economia speculativa fondata sulle bolle. L'ultima pazzia di Bernanke, il Term Asset-backed securities Lending Facility (TALF) (o facilità di credito sui titoli legati a degli attivi), fornisce il 94% del finanziamento pubblico agli investitori che vogliono comprare i prestiti legati a debiti su carte di credito, i prestiti agli studenti, i prestiti per le automobili o i prestiti immobiliari d'impresa. È una situazione “non perdente” per i grandi investitori che pensano che il debito cartolarizzato farà il suo ritorno. Ma è questo il problema: nessuno ci crede. Questi prestiti attraenti, accompagnati da una garanzia (quasi) senza rischi, non sono riusciti ad adescare le grandi agenzie di intermediazione e i direttori di fondi speculativi. Bernanke ha immagazzinato meno di 30 miliardi di dollari in un programma pensato per prestare fino a 1 trilione di dollari. È stato un completo insuccesso.

Per capire la cartolarizzazione bisogna pensare come un banchiere. I banchieri pensano che i profitti siano limitati dalle obbligazioni legali di riserva. Quindi, ciò che vogliono è sviluppare il credito senza queste riserve legali; come trasformare la paglia in oro. Creano uno sconcertante aldilà di strumenti dai nomi strani e di procedimenti ancor più insoliti che nascondono il semplice fatto di creare denaro dal vento. È ciò che è davvero la cartolarizzazione: una robaccia sottocapitalizzata che fanno passare per gioiello prezioso. Ecco come lo riassume l'economista Henry CK Liu nel suo articolo: “ Mark-to-Market vs. Mark-to-Model”

“Il sistema bancario ombra ha evitato subdolamente le obbligazioni legali di riserva del regime bancario e delle tradizionali istituzioni regolate e ha incoraggiato un piano piramidale inverso -come le catene di S.Antonio- con un leverage che sale alle stelle basato, in molti casi, su un cuscino di riserva inesistente. Questo è stato rivelato dal crollo di AIG nel 2008, causato dalla sua assicurazione sui derivati finanziari, conosciuti come credit default swaps (CDS) [accordo tra un acquirente ed un venditore per mezzo del quale il compratore paga un premio periodico a fronte di un pagamento da parte del venditore in occasione di un evento relativo ad un credito (come ad esempio il fallimento del debitore) cui il contratto è riferito. N.d.t.]

...

L'ufficio del Controllore monetario e la Riserva Federale unitamente hanno autorizzato le banche aventi un'assicurazione sui CDS a mantenere attivi a rischio super-senior nei loro libri contabili, senza aggiungervi del capitale, perché il rischio era assicurato. Solitamente, se le banche detenevano dei rischi super-seniors nei loro libri, dovevano assegnare un capitale pari all'8% dell'impegno finanziario. Ma questo capitale poteva essere ridotto a un quinto del montante totale (ossia 20% dell'8%, cioè 160 dollari per ogni rischio di 10.000 dollari nei libri), se le banche potevano provare ai regolatori che il rischio di morosità sulla porzione super-seniors dei contratti era davvero trascurabile e se i titoli emessi con l'intermediario di una struttura di CDO (collateralized debt obligation) [obbligazione che ha come garanzia (collaterale) un debito n.d.t.] avevano una notazione di credito AAA da parte di un' “agenzia di notazione di credito riconosciuta sul piano nazionale” come la notazione di AIG attraverso Standard & Poor. Con un'assicurazione sulle CDS, le banche potevano allora ridurre il capitale normale di 800 milioni di dollari per ogni 10 miliardi di dollari sui loro libri a soli 160 milioni di dollari: questo vuol dire che le banche con un'assicurazione sulle CDS possono prestare fino a 5 volte in più a partire dallo stesso capitale. I contratti CDO/CDS potevano allora aggirare le regole internazionali sul capitale”

La stessa regola si applica ai derivati (CDS) come strumenti cartolarizzati anch'essi insufficientemente capitalizzati, perché mettere da parte alcune riserve diminuisce la capacità di massimizzare i profitti. Tutto si riduce all'ultima riga del bilancio. La ragione per cui i CDS sono così a buon mercato rispetto ad un'assicurazione convenzionale, è che non esiste alcun modo di sapere se l'operatore ha la capacità di pagare gli indennizzi. Si tratta di frode, su scala gigantesca, e questo spiega perché il sistema finanziario è entrato in paralisi totale quando Lehman Brothers è fallita. Nessuno sapeva se i trilioni di dollari nei contratti di garanzia sarebbero stati pagati o no. Semplicemente, ci sono più domande di indennizzo di quanto denaro ci sia nel sistema. I crediti ipotecari fasulli e le false promesse di cauzione non significano niente. “Mostratemi il denaro!” Il sistema è sommerso e non può essere riparato dalla FED con maggiore liquidità schioccando le dita.

Il sistema bancario ombra non è crollato perché il mercato è “congelato” o perché gli investitori sono in uno stato di panico dopo Lehman Brothers, ma perché i derivati e la cartolarizzazione sono stati smascherati come frodi sostenute da un capitale insufficiente. È un intruglio venduto da ciarlatani. Ecco perché i responsabili europei resistono alle richieste della FED di creare una struttura simile al TALF per rimettere in moto la cartolarizzazione. Il lavoro di Bernanke è d'intervenire e mettere fine alle sciagure, non di aggiungere problemi restaurando il regime generatore di credito che ha trasferito centinaia di miliardi di dollari di persone che lavorano duro verso i grandi banchieri-gangsters e gli imbroglioni di Wall Street.

NOTA

[1] SPV = special purpose vehicle, (veicolo speciale) società creata appositamente per realizzare una o più operazioni di cartolarizzazione Un SPV classico acquisisce crediti, con un piccolo abbassamento del valore di mercato di una società rispetto alle sue filiali. In cambio, emette parti d'obbligazioni di rischi diversi. Tra questi SPV esistono dei veicoli chiamati “condotti”. Mettono da una parte all'attivo parti d'obbligazioni AAA provenienti dalla cartolarizzazione dei crediti. In cambio, emettono dei documenti commerciali (obbligazioni a breve termine). Questo documento commerciale, chiamato ABCP (asset backed commercial paper), frutta più dei piazzamenti a breve termine, essendo garantito da obbligazioni a lungo termine, che implicano dei tassi più alti.

Un'altra forma di SPV sono gli SIV (structured investment vehicles). Da una parte abbiamo sempre queste obbligazioni AAA provenienti dal frazionamento dei crediti. Dall'altro, gli SIV emettono in cambio dei note a medio termine (medium term notes) ma anche degli “equity”, titoli che assomigliano a delle azioni. E qui, ci sono grossi problemi.


Il grande riarmo planetario
di Jacques Dufour - Mondialisation - 5 Maggio 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di Matteo Bovis

Il processo di riarmo planetario prosegue allegramente nel 2009 con spese militari che continuano ad aumentare ed esercitano un grave prelievo di risorse che dovrebbero servire allo sviluppo umano. Nello stesso tempo, la crisi finanziaria che imperversa su scala mondiale spinge i governi a prelevare somme astronomiche dai bilanci nazionali per salvare le fortune dei più ricchi. I due fenomeni combinati insieme generano un processo di impoverimento generale e contribuiscono alla disintegrazione delle società.

Il presente articolo ha per obiettivo una breve descrizione delle interrelazioni tra questi due processi e la proposta di un'alternativa adatta a promuovere lo sviluppo, la sicurezza e i diritti umani per tutti.


I. Spese militari in crescita costante

Secondo il SIPRI [Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma], le spese militari mondiali sono in crescita costante dal 1998 (Figura 1). Nel 2007 hanno raggiunto la somma totale di 1.339 miliardi di dollari, di cui il 45% corrisponde alla quota degli Stati Uniti che hanno speso 541 miliardi di dollari, ossia il 3,4% in più rispetto al 2006. La Gran Bretagna occupa il secondo posto con una spesa di 59,7 miliardi di dollari. La Cina segue di poco con 58,3 miliardi di dollari e poi la Francia con 53,6 miliardi di dollari [radio-canada.ca].

E' importante ricordare che nel 2008 l'amministrazione Bush, per l'anno fiscale compreso da ottobre 2008 a settembre 2009, ha stanziato una somma di 3.100 miliardi di dollari per l'intero settore della difesa, comprese le spese per le guerre in Afghanistan e Iraq. Il budget nazionale della difesa negli Stati Uniti raggiungerà quest'anno la somma di 606,4 miliardi di dollari che rappresenta il più grande stanziamento dedicato alle spese militari dalla fine della Seconda Guerra mondiale. A titolo di confronto, quello della Russia è di 33 miliardi di dollari per l'anno fiscale 2007 e quello della Cina di 46,7 miliardi di dollari [humanite.fr].



Figura 1 – Le spese militari mondiali 1988 – 2007
(Fonte: globalissues.org)


Con le turbolenze e i capovolgimenti provocati dalla crisi finanziaria globale, si può anticipare un sostanziale aumento dei budget che saranno consacrati quest'anno e nel 2010 alla difesa e alla sicurezza nel mondo, spese effettuate a scapito delle sviluppo umano. Ancora in cantiere ci sono la modernizzazione dei sistemi per assicurare la sicurezza delle infrastrutture e dei dispositivi necessari al buon funzionamento e all'espansione del complesso militar-industriale. Tuttavia, i progetti militari sono concepiti sempre di più per una maggiore sorveglianza dei cittadini e per domare le insurrezioni e le rivolte popolari che rischiano di moltiplicarsi nell'arco dei prossimi anni.



II. I dollari dei piani di salvataggio riciclati nel commercio mondiale degli armamenti

Sembra più che probabile che le somme colossali inscritte nei piani di salvataggio finanziario delle grandi banche saranno in gran parte riciclati nel commercio mondiale degli armamenti così come è avvenuto per i petrodollari nel corso degli ultimi decenni del ventesimo secolo. Lo pensiamo in ragione dei due seguenti fattori: il primo riguarda l'elevata concentrazione spaziale delle risorse finanziarie dei piani di salvataggio nei principali paesi esportatori di armamenti e il secondo risiede nelle regole di funzionamento intrinseche al sistema capitalista stesso.

I principali paesi esportatori e importatori di armamenti

Secondo i dati dell'Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (SIPRI), cinque paesi, gli Stati Uniti, la Russia, la Germania, la Francia e il Regno Unito, controllano il 64% del commercio di armi nel mondo. Nel 2007, sono note transazioni di vendita e di acquisto di materiale militare di varia natura dell'ordine di 1.130 miliardi di dollari. Questo commercio è stato per il 48% di competenza degli Stati Uniti [degerencia.com].

Secondo i dati dell'ultimo rapporto dello stesso Istituto reso pubblico la settimana scorsa, il commercio di armamenti ha visto un aumento del 22% tra il 2002 e il 2007. I principali acquirenti sono stati la Cina, l'India, il Medio Oriente e Israele. In America latina, il principale compratore è stato il Cile che ha acquistato il bombardiere olandese F-18 per un importo di 260 milioni di euro [utopiacontagiosa.wordpress.com].

Il modus operandi delle operazioni finanziarie del capitalismo

Il modus operandi privilegiato dalle banche è di investire nei settori forti dell'economia e quello della difesa è sempre stato favorito in tal senso perché genera in sé, essendo in costante espansione, immensi profitti sia per i produttori che per i fornitori agli eserciti nazionali e, di conseguenza, per investitori e gestori di fondi. I diversi interventi degli Stati occidentali per salvare l'economia capitalista si sono materializzati nei piani di salvataggio che, secondo le ultime stime [prisonplanet.com], hanno totalizzato la somma di 8,5 trilioni di dollari (un trilione rappresenta 1.000 miliardi). Questa cifra enorme è stata prelevata dai bilanci nazionali minacciando il mantenimento di programmi sociali e rendendo molto più fragili le disposizioni dei contratti collettivi di lavoro.

Per fomentare una recrudescenza o un'effervescenza continua delle spese militari, in vista dell'acquisto di nuovi equipaggiamenti e per il mantenimento delle installazioni e la conservazione del personale richiesto, va da sé che è necessario incoraggiare il commercio internazionale di armi. Mostre e fiere che espongono i più moderni armamenti disponibili sul mercato vengono organizzate un po' dappertutto nel mondo. La settimana scorsa, la Turchia ha ospitato a Istanbul i "grandi nomi dell'industria della difesa in occasione della nona edizione della mostra internazionale IDEF) [spyworld].

Queste fiere si svolgono nell'ombra o di soppiatto e le informazioni sui contratti di vendita e di acquisto restano segrete. Non vengono divulgate che al momento in cui costituiscano una leva politica nell'ambito di campagne elettorali. Allora ne vengono svelati alcuni frammenti se fanno parte del programma politico dei partiti suscettibili di andare al governo.

Questa mostra, come dozzine di altre che si svolgono ogni anno in tutti i continenti, permette ai produttori ed esportatori di armi di fare conoscere i loro nuovi prodotti agli eventuali acquirenti. Così a Istanbul, la fiera ha ospitato, il 29 e 30 aprile scorsi, 462 espositori provenienti da 45 paesi. All'appuntamento sono giunte 42 delegazioni ufficiali. Si tratta in effetti della più grande esposizione commerciale della Turchia [spyworld-actu.com].

I prodotti per la guerra esposti

I sistemi e prodotti esposti riguardavano dispositivi di difesa terrestre, navale, aerea e aerospaziale, di trasporto e di attività logistiche di supporto ed equipaggiamenti e materiali per l'approvvigionamento di eserciti nazionali [idef07.com].

Dalla cerimonia di apertura:
"Il ministro della Difesa della Turchia ha ricordato che una volta gli approvvigionamenti delle forze armate turche venivano fatti con acquisti diretti o con produzioni comuni, finché a partire dal 2000, l'obiettivo dell'industria della difesa è stato quello di sviluppare idee personali nei campi prioritari e di costituire una struttura idonea alla competizione internazionale nell'industria della difesa, orientandosi verso partnership e cooperazioni in quei casi in cui le possibilità di design non erano possibili. Il ministro ha fornito i seguenti dati: tutti i sistemi concepiti in Turchia sono sistemi operativi ed esportati in diversi paesi: sistemi di puntamento e di visione notturna, radio tattica, sistema radar di controllo del tiro, veicoli blindati, navi pattuglia e sorveglianza marittima, sistemi di difesa aerea a bassa quota, simulatori per aerei ed elicotteri, mappe elettroniche, diverse tipologie di razzi e armi … La maggior parte dei progetti sono progetti RD lanciati con Tubitak nel 2005, dopo altri progetti di Ricerca e Sviluppo (RD) supportati dal Fondo di sostegno all'Industria della difesa e del ministero nazionale della Difesa." [trtfrench.com].

Il Canada in lizza con quattro esposizioni nel 2009 e 2010
Industria Canada presenta il calendario di queste fiere nel periodo che va da marzo 2009 a luglio 2010 [ic.gc.ca]. I 27 eventi lencati si terranno principalmente nei grandi paesi esportatori di armamenti come gli Stati Uniti, l'Australia, l'Italia, la Francia e il Regno Unito e in altri paesi che rientrano tra i buoni compratori o potenziali intermediari come il Canada, il Cile, Dubai o Singapore. In Canada, avranno luogo quattro mostre a Vancouver, Halifax, Montreal e Ottawa. La capitale accoglierà CANSEC 2009 il 27 e 28 maggio prossimi [defenceandsecurity.ca]. Si tratta della più grande esposizione di materiale per la difesa del Canada. CANSEC 2009 esporrà i prodotti per la difesa e le tecnologie avanzate a favore delle agenzie governative e dei dipartimenti interessati dalla sicurezza, la protezione del pubblico e i piani di emergenza.

CANSEC 2009 rappresenterà la decima edizione del genere che si tiene ad Ottawa "il che dimostra, secondo gli organizzatori, il grande valore che viene accordato al fatto di fare incontrare gli esperti di sicurezza con i rappresentanti dell'industria. Riconoscendo l'importanza della sicurezza nazionale e continentale nella congiuntura attuale, l'esposizione presenterà le capacità industriali e i servizi offerti idonei ad aiutare il Canada a onorare i suoi impegni in materia di sicurezza nazionale ed internazionale" [defenceandsecurity.ca].

Si ha cura di notare che la fiera è riservata esclusivamente ai dipendenti del governo, al personale militare e della sicurezza canadese e ai membri dell'Associazione canadese delle industrie della difesa e della sicurezza (CADSI). Non saranno ammesse eccezioni.

IV. Come sarebbe possibile destinare i piani di salvataggio ad altri scopi

Investimenti nei settori dell'educazione, della salute e nella ricostruzione e protezione dell'ambiente sarebbero molto più redditizi e ne potrebbero beneficiare tutti. In effetti, secondo le stime dell'Organizzazione mondiale della Salute (OMS), riprese dal Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (PNUE) in GEO-4, "i costi e i benefici necessari per raggiungere gli obiettivi del Millennio per lo sviluppo nel campo dell'acqua e dell'igiene, assommavano a un totale di circa 26 miliardi di dollari con un rapporto costi/benefici da 4 a 14. Differenti scenari preparati dalla Banca mondiale, pur raddoppiando i costi stimati dall'OMS, presentavano ancora un rapporto costi/benefici che andavano da 3.2 a 1 che potrebbero salvare la vita a più di 1 miliardo di bambini di età inferiore ai 5 anni nel periodo 2015 – 2020" [PNUE, 2007, p. 492]. Secondo i dati del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, "la somma necessaria nel corso dei prossimi 15–20 anni per raggiungere gli obiettivi del Millennio per lo sviluppo allo scopo di garantire la conservazione dell'ambiente (obiettivo n. 7) si situa probabilmente tra 70 e 90 miliardi di dollari all'anno" [PNUE, 2007, p. 492].

Alcune organizzazioni operanti nella cooperazione internazionale per lo sviluppo hanno cercato di misurare l'ampiezza considerevole di tali risorse finanziarie che sono state concesse per salvare l'economia capitalista dei paesi ricchi da un naufragio inevitabile. Secondo Duncan Green, globalmente i salvataggi, alla data di gennaio 2009, mostrano secondo le stime Oxfam che le somme accordate o promesse alle banche e ad altri istituti finanziari erano fino ad allora dell'ordine di 8.424 trilioni di dollari, di cui 903 miliardi di dollari di fondi governativi, 661 miliardi di dollari per l'acquisto di assets tossici, 1,38 trilioni di prestiti e più di 5,48 trilioni a garanzia dei debiti. L'equivalente di 1.250 dollari per ogni uomo, donna o bambino del pianeta [whitebandaction.org].

Secondo lo stesso autore, una somma di 173 miliardi di dollari sarebbe il costo annuale per mettere fine all'estrema povertà nel modo, ossia una somma che permetterebbe all' 1,4 miliardi di abitanti con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno di uscire dal loro stato di povertà. Egli conclude sottolineando il fatto che le risorse destinate al salvataggio finanziario globale sarebbero sufficienti per mettere fine alla povertà nel mondo per i prossimi 50 anni [whitebandaction.org].

Conclusione

Il processo di riarmo planetario non sembra, ai nostri occhi, ipotecato o arrestato dalla crisi finanziaria. Al contrario, i piani di salvataggio di economie ampiamente basate sulla produzione di armamenti non possono che essere ad essa favorevoli, come è il caso degli Stati Uniti e dei membri dell'Unione Europea. L'impatto del disastro finanziario si prospetta molto pesante per l'insieme delle condizioni di vita della popolazione mondiale. Non può che rendere ancora più vulnerabili le popolazioni povere o in via di impoverimento a causa dell'aumento della disoccupazione e delle difficoltà di accesso a risorse vitali come l'acqua e il cibo.

Con la combinazione della crisi finanziaria e del massiccio riarmo il mondo è entrato in una spirale di deficit e di debiti pubblici giganteschi che mettono in pericolo la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il processo di impoverimento della maggioranza sembra svilupparsi più che mai a ritmo accelerato [Michel Chossudovsky, La débâcle fiscale des États-Unis], perché le soluzioni adottate dai governi non servono che ad accentuare la dinamica di questa spirale di precarietà, di schiavitù, di malattia e di morte, con l'unico scopo di salvaguardare gli averi e di accrescere il potere degli individui più ricchi del pianeta.

Riferimenti

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Jules Dufour, Ph.D., è presidente dell'Associazione Canadese per le Nazioni Unite (ACNU)/Sezione Saguenay-Lac-Saint Jean, professore emerito all'Università del Quebec a Chicoutimi, membro del circolo universale degli Ambasciatori di Pace, cavaliere dell'Ordine nazionale del Quebec.


La crisi e la critica della ragione economica

di Eduardo Zarelli - www.ilribelle.com - 28 Giugno 2009

Questa instabile estate porta con se la perturbabilità del clima e la cangiante opinione dei più sull'andamento della crisi economico-finanziaria internazionale. Tramite i media ci si sforza di comunicare che il peggio sarebbe passato. Non siamo in grado di prevedere il futuro e non ci presteremo al gioco superficiale di confutare o corroborare questa tesi con un pregiudizio ideologico. Quello che è certo è l'acquiescenza generale a proseguire sulla strada interrotta. Da sinistra a destra non emerge il dubbio sulle cause, e quindi sul modello stesso del primato economicista della modernità.

Il sistema politico, economico e culturale si sta sbracciando per offrirci un'immagine benevola di sé. Per convincerci che, in fondo, l'unica possibilità che abbiamo non è immaginare un futuro diverso, ma seguitare ad affidarci alla sua forza intrinseca e a fare il tifo per la risalita del Pil e delle Borse, collaborando di buon grado a uscire dalle secche in cui questo modello di sviluppo si è incagliato. Insomma, pare che convenga proprio a tutti fare finta di nulla, fare finta che nulla sia successo e continuare daccapo come prima.

In controtendenza, lo spirito critico e non conformista deve invece protendere ad oltrepassare ciò che è dato. Costituire “nuove sintesi” di pensiero capaci di interpretare un vero cambio di paradigma. È palese, a ogni coscienza intellettualmente onesta, che le categorie date non reggono la transizione tardo-moderna e l’annesso deserto nichilistico: questa è la sostanza concettuale su cui confrontarsi per formulare ipotesi teoriche coerenti e rigorose necessarie per risultare credibili nella critica all’egemone modello liberistico.

In tal senso, vorremmo porre una riflessione specifica sull’approccio antiutilitarista nel rapporto tra economia e ambiente. Questo, al fine di individuare quello che a noi appare contraddizione centrale del determinismo della modernità: la divaricazione tra cultura e natura. Tale antinomia permane, e anzi si espande con connotati drammatici e incalzanti, ponendosi come discrimine forte, in questo caso sostanzialmente ideologico, per chi intende scegliere la critica all’esistente quale posizione culturale, sociale ed esistenziale.

L’antiutilitarismo – si pensi a Serge Latouche - indagando sulla genealogia dell’economicismo non può che intrecciarsi con quella parte minoritaria e misconosciuta del pensiero ecologista. Il reinserimento dell’economia nel sociale, la risacralizzazione del vivente e il conseguente re-incanto del mondo sono punti di riferimento condivisi, che d’altra parte assumono un sano realismo antiutopistico nel negare sia la razionalizzazione dell’ambiente ridotto a risorsa economica che l’idilliaco rispetto dell’incontaminato. Solo un equilibrio è possibile, tra cultura e natura: lo sbilanciamento per una delle parti in causa rafforza la vettoriale dialettica progresso/reazione a scapito della ciclicità, del senso del limite dell’armonico, che si incarna nel valore della giustizia condiviso nel bene comune. La critica dell’esistente non può identificarsi con la negazione della realtà, patologia genetica e germinalmente totalitaria degli ideologismi positivi, sia idealistici che materialistici.

D’altronde, la base del nostro agire quotidiano nelle società liberalcapitaliste, si fonda su una delle “favole” meglio riuscite dello storicismo. La condizione di scarsità materiale determina il sacrificio necessario del rapporto di scambio per sostituire la redistribuzione sociale. In realtà la reciprocità comunitaria precede e poi riappare con drammatica soluzione di continuità a disconoscere le categorie di Stato e mercato, che si impongono definitivamente solo con la piena modernità. Nella produzione e nella soddisfazione dei nostri bisogni, “ovviamente” materiali, si inventa la felicità edonistica, la quale può rendersi collettiva solo nella concorrenza tra i soggetti che tentano di massimizzare i loro interessi.

Ecco allora l’utopia di una “armonia naturale”, che in realtà della natura fa vedere quello che le conviene, vera “mano invisibile” che concilia provvidenzialmente la conflittualità degli interessi. Questo è il più potente determinismo storico costituente la civilizzazione occidentale. La diffusione del mercato porta con sé la “mano invisibile” che elimina conflitti e antagonismi di classe tra Occidente e Terzo mondo, e via discorrendo; ma, ammesso e non concesso che le cose stiano così, con la crisi verticale di rappresentanza delle ideologie critiche fondate su una base economicista dell’esistente, può questa carismatica “mano invisibile” eliminare anche i conflitti d’interessi tra gli uomini e la natura?

Evidentemente no. I mutamenti climatici, piuttosto che la degenerazione immunitaria e lo sfaldamento dell’autonomia organizzativa dei sistemi naturali indicano che la mercificazione dell’esistente può piegare tutto, tranne la compiutezza del vivente, l’omeostasi fisio-biologica, il climax biotico. La falsificazione economicista deve quindi essere smascherata e combattuta nelle sue conseguenze pratiche sull’ambiente naturale a partire dai suoi stessi principi fondativi, simbolico-culturali ancor prima che concreti e razionali.

Una crescita senza fine
L’idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento delle condizioni di tutti i popoli della Terra, è stata introdotta ufficialmente nel mondo dal discorso d’insediamento del presidente statunitense Truman, il 20 gennaio 1949. Fu lui, al comando della più imponente potenza economica mai apparsa sul nostro Pianeta, a parlare per la prima volta di sviluppo come gioco globale a “somma positiva” e in quel preciso istante tre miliardi di abitanti della Terra diventarono di colpo “sottosviluppati”. Cinquantatrè anni dopo, la civiltà occidentale è ancora fondata su quell’assunzione, ma le condizioni oggettive in cui si trova il nostro Pianeta ne hanno già da tempo segnalato il fallimento.

La fede nel progresso e nella tecnologia supporta il culto dello “sviluppo” e gli economisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova religione positiva e razionale che accompagna l’espansione senza precedenti dell’Occidente. Il potere di autorigenerazione della natura è stato rimosso, distrutto a beneficio di quello del capitale e della tecnica. La natura è stata ridotta a un serbatoio di materia inerte, ad una pattumiera. La globalizzazione sta completando l’opera di distruzione dell’oikos planetario; infatti la concorrenza spinge i Paesi industrializzati a manipolare la natura in modo incontrollato e i Paesi in “via di sviluppo”, stretti nella morsa debitoria, a esaurire le risorse non rinnovabili. Con lo smantellamento delle regolamentazioni delle sovranità politiche, non c’è più un limite all’abbassamento dei costi in un gioco al massacro tra i popoli e a detrimento della natura che li sostiene.

Nell’agricoltura, l’uso intensivo di concimi chimici e di pesticidi, l’irrigazione sistematica, il ricorso agli organismi geneticamente modificati hanno per conseguenza l’impoverimento dei suoli, il prosciugamento e l’avvelenamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti indesiderabili, il rischio di devastazioni microbiche. Tutti i Paesi sono coinvolti in questa spirale suicida, ma nel Terzo Mondo, essendo in gioco la sopravvivenza biologica immediata, la riproduzione degli ecosistemi è completamente sacrificata. Si pensi che, per esportare il legname, la foresta tropicale sta sparendo (Camerun, Indonesia, Papuasia-Nuova Guinea) con l’annessa conseguenza di un’erosione accelerata dei suoli e di un aggravamento delle inondazioni (come quelle del Mekong e affini).

In pratica, ciò che viene comunemente inteso dalle economie occidentali come “sviluppo” è una ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Due motivi di questo fallimento sono facili da intendere e riassuntivi della contraddizione del termine: l’insostenibilità sociale e quella ambientale. L’emergenza sociale è rappresentata dal cumulo di violenza compressa che sta montando nel mondo, spesso riconducibile alla reazione degli indigenti prodotti dall’occidentalizzazione del mondo, che, con un processo ineludibile, prima li cattura e poi li esclude; quella ambientale è determinata dalla limitatezza delle risorse della Terra oggi egemonizzate da un 20% scarso dell’umanità.

Se, per una sorta di miracolo, si riuscisse ad annullare la prima emergenza, cioè il libero mercato planetario riuscisse a distribuire a tutti gli abitanti della Terra l’accesso ai consumi, immediatamente la seconda emergenza si farebbe terminale e apocalittica. Si pensi ad esempio all’effetto serra: a meno che gli scienziati non vogliano smentirsi in nome delle “magnifiche sorti e progressive”, noi tutti viviamo grazie a una biosfera che è in grado di assorbire senza danni 2,3 tonnellate annue pro capite di emissioni di diossido di carbonio, ma ogni cittadino americano ne produce 20 all’anno, ogni tedesco 12 e ogni italiano 10.

A noi non risulta che nei programmi dell’OCSE sia prevista la riduzione del 900% dei consumi dei cittadini americani, oggi necessitati a ciò dalla crisi (né per i tedeschi del 500% e del 400% per gli italiani); risulta quindi evidente che la somma del gioco globale della globalizzazione, chiamato eufemisticamente “sviluppo”, è a somma zero, anzi, continuerà limitatamente nel tempo fino a che verranno mantenuti esclusi, in forme eminentemente violente, i quattro quinti dell’umanità dal modello occidentale che viene loro imposto.

I rapporti tra l’economia e l’ecologia si intrecciano nel paradosso. Entrambe nascono dall’oikos (la casa, l’ambito comunitario, la nicchia), ma ne declinano interpretazioni opposte. Aristotelicamente, l’economico si limita ad essere supporto dell’esistenza del comunitario, l’economico moderno ne ribalta il concetto e si rende autonomo, autoreferenziale, nell’accumulo di sé (crematistica). In tal senso, gli ecologisti coerenti risultano critici dell’economia come teoria e nemici nella sua pratica.

L’economia della modernità si poggia concettualmente sull’utilitarismo e sul mercantilismo. Sempre in nome del paradossale rapporto tra economia e natura, i Fisiocratici incentrano la teoria dello sviluppo economico sulla fertilità naturale, mutuandone il libero dispiegarsi. Malauguratamente, confondendo la fertilità naturale con la produttività dell’attività umana, i Fisiocratici, invece di mantenere l’economia iscritta nella biosfera e di accettarne e studiarne i limiti, formuleranno la definitiva autonomia della sfera economica mistificandola come “organismo naturale”.

Lo stesso liberismo degli economisti classici espone una natura limitata e avara ma per disporre simbolicamente del vero grimaldello edonistico economicista: la scarsità. La natura ostile è spogliata di valore intrinseco. Strumento d’emancipazione umana, la scarsità naturale non verte sui limiti delle materie prime e delle fonti energetiche, quanto sulla necessità della loro trasformazione con un lavoro che si fa morale e una tecnica strumentale che si rende fine etico.

In tal modo la natura è fuori dall’economia. Adottando il modello della meccanica classica newtoniana, l’economia esclude l’irreversibilità del tempo. I modelli economici si svolgono in un tempo meccanico e reversibile; essi ignorano l’entropia, vale a dire la non reversibilità delle trasformazioni dell’energia e della materia. Essendo sparito ogni riferimento a qualunque substrato biofisico, la produzione economica non si confronta con alcun limite ecologico. La conseguenza è uno sperpero incosciente delle risorse rare disponibili e una sottoutilizzazione del flusso energetico solare, in tutte le sue ricadute organolettiche. I rifiuti e l’inquinamento, pure prodotti dall’attività economica, non rientrano nelle funzioni della produzione, così nulla si oppone più alla realizzazione, da parte della tecno-scienza e dell’economia, del programma di dominio e di sfruttamento totale dell’universo. Su questo piano inclinato, le varianti redistributive, collettivistiche e autoritarie, mutano la forma, ma non la sostanza nichilistica della modernità.

Non da meno, le proposte “deboli”, che animano la parte maggioritaria dell’ambientalismo progressista, si concentrano nell’ossimoro dello “sviluppo sostenibile”, che ha obbligato gli economisti, sulla spinta dell’evidenza, ad un aggiornamento della loro disciplina e ad includere l’impatto sull’ambiente naturale dei loro modelli. In tal modo, l’economia “ecologica” è lungi dal rimettere in discussione la logica utilitaristica, che è la vera fonte della negazione della natura. La ciclicità del vivente, il debito nei confronti della natura e la misteriosa solidarietà della specie, sono ridotti a dispositivi tecnici, che trasformano l’ambiente naturale in un meccanismo materialistico energetico finalizzato dalla ragione strumentale della modernità. La stessa logica giunge alla tassazione dell’inquinamento per reindirizzare virtuosamente l’allocazione delle risorse.

Su tale strada, i potentati economici hanno determinato il delirio dell’ultimo trattato internazionale sulle emissioni gassose, che consente di ridistribuire l’inquinamento acquistando quote territoriali di discarica indipendentemente dalle proprie produzioni (cioè il diritto ad inquinare). Rimane però il problema nelle cause, e non negli effetti, in un universo fisico comunque limitato. La credenza dell’inesauribilità delle risorse naturali, su cui poggia il modello industriale di sviluppo sostenuto dagli economisti, è crollato, mentre i sotto-prodotti deleteri della produzione minacciano la sopravvivenza stessa della nostra specie.

Qualunque sia il grado di arbitrarietà apocalittica sulle attuali compatibilità ecologiche con la civilizzazione industriale, nessun interlocutore intellettualmente onesto può misconoscere che la devastazione della natura corrode definitivamente i benefici dello sviluppo. Questo si iscrive nell’idea che il capitale artificiale può sostituirsi a quello naturale, semplicemente conviene dargli un prezzo per assicurare la ricostituzione del suo equivalente. Già a Manhattan, nei caffè rumorosi si possono comprare tre minuti di silenzio acquistando una cassetta vergine.

Analogamente, negli incroci di Città del Messico, si compra l’ossigeno delle maschere antigas. Una scansia del supermercato degli orrori dove cerchiamo con raccapricciante scontatezza l’acqua in bottiglia piuttosto che gli uteri in affitto o gli organi per sempre più eterogenerici trapianti; tuttavia la materia prima di tutte queste manipolazioni rimane ancora un insopportabile dono della natura, dotato di proprietà naturali non inventabili dalla tecnoscienza. La scomparsa di specie vegetali e animali selvagge non ferma la biopirateria, gli OGM, i comportamenti predatori.

Questo è il paradosso col quale si scontrano i trust agro-alimentari e farmaceutici nella loro prometeica impresa di integrale colonizzazione e artificializzazione del vivente. Distruggono la biodiversità propagandandone sul mercato solo i geni utili, ma hanno bisogno di accedere al patrimonio originario in esaurimento. La “sostenibilità” quindi è la mistificazione ultima del modello utilitaristico. Nulla ha a che fare con la natura in sé, ma corrisponde ad un calcolo economico implacabile. Acquistare quote di inquinamento nel Terzo Mondo stimolerà il suo sviluppo. Meglio morire di cancro che morire di fame. In realtà entrambi i fattori sono destinati a svilupparsi, questi sì senza limiti, per i motivi sopra esposti, a dimostrazione che razionalizzando l’ecologia si cede il dominio all’economico alimentando la contraddizione tra sviluppo e natura.

Pretendendo che l’umanità sia composta da atomi individuali mossi dai loro soli interessi egoistici, che si attribuiscono ogni diritto sulla natura e sulle altre specie viventi, la scienza economica sostiene e incoraggia storicamente la più straordinaria impresa di distruzione del Pianeta. Mettendo in opera questo programma e lanciandosi in un’accumulazione illimitata, stimolata da una competizione evolutiva senza freni, l’economia liberistica, oramai globalizzata, distrugge ogni cura dell’oikos, della comunità e delle sue forme di sussistenza, sradica ogni forma naturale o culturale che sfugge alla mercificazione.

Ci sono sempre più economisti ecologisti, ma è palese che, la scienza economica è reticente sulla natura, misconoscendo il fatto che il mercato si sviluppa in una biosfera. L’integrazione nel calcolo economico degli elementi dell’ambiente naturale, contabilizzandoli artificialmente, non modifica la natura dello sviluppo né la logica razionalista della modernità. È attraverso la fuga in avanti nella tecnica che si pensa di risolvere i problemi posti dalla megamacchina tecnomorfa.

Di fronte alla profonda corruzione sensistica del progetto acefalo, temporalmente vettoriale, dello “sviluppo” industriale è necessario estrarre la politica dalla rappresentanza formale eterodiretta dagli interessi del macchinismo sociale e reintegrare la persona in un contesto comunitario per mezzo della partecipazione democratica: ridurre la scala, metabolizzare il globale nel locale, recuperare l’orizzonte antropologico estraendolo dal dissesto nichilistico della civilizzazione planetaria. Ecologismo non significa rendere ambientalmente migliore, meno inquinante la megamacchina. Significa esclusivamente avvicinare l’uomo alla Natura.

Partendo dalla cultura ecologista, emancipata dal riduzionismo scientifico, si deve formulare la critica dell’esistente su alcuni concetti cardine. Non si risolvono i problemi legati al vivente riformando gli effetti dannosi, ma rimuovendo le cause della patologia. La natura è ciclica e limitata nel suo eterno rinnovarsi. Pensare secondo la forma ciclica del tempo comporta in primo luogo, che l’idea di causa venga sostituita da quella di condizione concomitante: in base a tale sostituzione risulta che ogni evento ha più cause e che ciascuna di esse è a sua volta effetto di altre cause.

In secondo luogo all’idea di successione subentra l’idea di simultaneità, per cui eventi diversi possono verificarsi ed essere colti nel medesimo momento, in una percezione sincronica invece che diacronica. Infine, la logica lineare che sostiene i processi di industrializzazione e di deduzione viene sostituita con quella dell’analogia. In definitiva, la forma ciclica del tempo comporta una visione panoramica in quantità e simbolica in profondità, non prospettica ed analitica del mondo e della vita, per cui ciò che conta è una visione d’insieme, dove i singoli elementi sono in relazione tra essi, celebrando una percezione empatica del reale.

La scienza può essere di avanzamento nella conoscenza e nell’evoluzione sociale solo fuori dal riduzionismo razionalistico, solo se simbionte al vivente, ricomponendo la frattura dualistica in un quadro olistico, dove la totalità è superiore alla semplice somma degli elementi. La complessità relazionale non è programmabile per astrazione, i fenomeni sono indeterminabili meccanicisticamente nella loro complessità, solo l’intuizione poetica (intelligenza) può cogliere sintesi di superiore profondità e consapevolezza rispetto al presunto efficientismo del pragmatismo empirico.

La dimensione del locale
Sostenere che il progresso non esiste, non significa che una somma di avvenimenti succedutisi in anni diversi non origini qualcosa, che si può chiamare “storia”. Significa sostenere che questi avvenimenti hanno fatto profondamente regredire l’umanità e, se qualcuno pensa che da un punto di vista sociale questo non sia vero, la risposta è che i miglioramenti sociali sono stati a “somma zero”. I bambini che vivono rovistando nelle bidonville di Città del Messico sono la diretta conseguenza di ogni aumento di stipendio di un salariato del “mitico” nord-est. Prima dello sviluppo, mangiavano tortillas nelle loro capanne e giocavano sporcandosi di terra.

Noi occidentali viviamo più a lungo: questo è vero… Ma in che modo, e in che percentuale?
Siamo fuori dall’indigenza - ma il concetto di indigenza è molto sfuggente - e questo è, a nostro avviso, tutto ciò che di apparentemente buono il “progresso” ha realizzato. Il progresso tecnologico è tale solo a posteriori: tutto ciò che garantisce è un’accelerazione delle nostre vite, e la creazione di nuovi bisogni. È vero che oggi è difficile fare a meno del cellulare: ma quindici anni fa ne facevamo a meno e non sembra che la qualità della nostra vita sia migliorata grazie al cellulare, anzi si comunica molto di più per capirsi sempre di meno. In compenso, il patrimonio di conoscenze tradizionali, di sensibilità, di varietà culturale e biologica, e molto altro, si è drammaticamente compromesso.

La nostra possibilità di sopravvivenza si è infinitamente ridotta: dipendiamo dalla tecnologia per il soddisfacimento di qualunque bisogno primario e, se è vero che oggi il povero occidentale appare meno povero, è anche vero che lo straccione Tom Saywer faceva il bagno nel fiume. Oggi, non c’è solo il bimbo di Città del Messico: ci sono i bambini di Roma, che non hanno mai visto una gallina o una mucca in vita loro e che, se fanno il bagno nel Tevere, vengono ricoverati con prognosi riservata.
La modernità occidentale porta a compimento la divisione tra cultura e natura. Invece, in tutte le culture sapienziali, ogni corpo individuale, compreso quello umano, è sempre parte integrante del corpo cosmico, determinazione intrinseca di quell’ordine universale che è la Natura. Nella tradizione Taoista «L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità». La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico. Bisogna quindi uscire dal conformismo delle regole fatte convenzioni morali, sociali, culturali e politiche: l’uomo per conformarsi al Tao, deve pertanto «volgersi alla radice», «volgersi all’origine», «uniformarsi al fondamento», ossia riconquistare quelle condizioni di spontaneità che vigevano prima dell’introduzione della regola sociale.

Una visione politica, basata su queste leggi, sul modo in cui opera il mondo del vivente, è indisposta ad un potere monolitico (tecnocratico) che eterodirige gli elementi fondanti l’organismo stesso, sarà piuttosto propenso alla decentralizzazione, all’interdipendenza e alla diversità. Un potere diffuso, partecipativo, in qualche modo “accidentale”, la cui sede decisionale è nella vitalità della comunità di base, possibile solo in un contesto antropologicamente limitato. Uno scenario realisticamente postmoderno, quindi non fuori dalla storia, ma possibile nella decisione culturale di un destino diverso dal determinismo unilineare della modernità.
«Potremmo avere navi e carrozze, ma non ve ne sarà bisogno, potremmo bardarci di armi e corazze, ma non si dovrà combattere.

Gli uomini torneranno ad imparare a fare nodi con una corda per sollecitare la memoria, piuttosto che servirsi della scrittura. Tutti avranno abbastanza da mangiare, vestiti decenti; sapranno godersi la vita casalinga, giacché ogni villaggio è uno Stato a sé, e con contentezza troveranno ogni risposta nelle tradizioni locali. Gli Stati confinanti si guarderanno a vista, udranno gli uni degli altri il canto dei galli e l’abbaiare dei cani, ma i vicini, per tutta la vita, non si faranno mai visita».

Quanto Lao Tse dice contrasta sia con lo “sviluppo economico” che con la civilizzazione politica (Stato), ma sostanzia quella reciprocità di sobria sussistenza, che include l’economico nel sociale legittimandolo culturalmente. A tutt’oggi, nella Cina profonda, i contadini vivono con l'acquacoltura. Stagni, laghi e bacini per cinque milioni di ettari servono all’allevamento della carpa; i contadini fertilizzano le vasche col letame, nutrendo così il plancton in una catena alimentare perfetta. In questo modo la Cina copre da sola i due terzi dei prodotti della acquacoltura mondiale e si sfama, senza squilibrare il territorio.

Nel Tao (la Via spirituale) si tende insomma a un modello di economia ecologica in cui piccolo è bello e l’uomo è ricco se gli basta ciò che ha. Se vuole invece di più, è povero. La virtù taoista conduce alla felicità; non viceversa, come per istinto utilitario crede l’Occidente. Se è l’utile il fine che guida l’uomo occidentale, l’atto supremo dell’economia di Lao Tse è la naturalezza, quanto è in sorgere e rimanda all’origine. La felicità è armonia che precede l’utile. I Cinesi non moriranno di fame fino a che non arriveranno i supermercati incombenti con la grande distribuzione della WTO.

A quel punto, abbandoneranno il loro stile di vita e cominceranno a morire di cancro.
In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica ed etologica della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici.

In questo orizzonte l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (territoriali, cioè ambientali e quindi produttive) e su reti di scambio complementari e solidali piuttosto che gerarchiche fra entità locali.

Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole cosmogonicamente del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso e dargli quindi una “forma”, uno stile, che sacralmente plasma il divenire in un eterno presente.


Gotti Tedeschi: quella "sussidiarietà perversa" della finanza che ha impoverito tutti

da www.ilsussidiario.net - 29 Giugno 2009

Il governo ha varato nuove misure anticrisi, ma il dibattito sul credito rimane aperto. Settimana scorsa il ministro Tremonti ha detto che il credito alle imprese rimane scarso, nonostante le misure adottate. «Sul credito il problema è ancora aperto ed è ancora aperta la domanda di responsabilità» ha detto il ministro. Ma Passera gli ha risposto che le banche hanno decine di miliardi inutilizzati e Salza ha rincarato la dose: il credito? «Quelli che ce lo chiedono non sono in condizioni di ottenerlo, sono aziende che sarebbe un errore finanziare». Abbiamo chiesto l’opinione di Ettore Gotti Tedeschi, economista.

Professore, chi ha ragione, Tremonti o Passera?

E evidente che Tremonti è preoccupato che la massa monetaria messa a disposizione dal sistema circoli per andare alle imprese e questo non succede. D’altra parte non ha torto Passera quando dice che le banche sarebbero felici di poter fare credito: non si può e non si deve pensare, infatti, che il loro unico scopo, dalla crisi in poi, sia quello di patrimonializzarsi. Ma ha ragione anche Salza: i tempi sono cambiati e con essi la percezione del rischio. Incombe, davanti alla nostra economia reale, un periodo molto difficile. Come ha detto di recente Michele Perini, per capire realmente la portata della crisi occorre aspettare settembre: perché non tutte le imprese, c’è da starne certi, riapriranno dopo le ferie. Siamo nel mezzo di un rischio di crollo dal 30 al 50% degli ordini. È naturale che le banche assumano un atteggiamento prudente.

Le banche impongono allora condizioni più difficili?

Guardi, c’è anche un fatto che normalmente dimentichiamo. Fino a ieri le banche, soprattutto verso le medie imprese, accettavano il cosiddetto sconfinamento dal fido, che valeva tra il 20 e il 30% dell’affidamento totale. Oggi questo equivale ad un minor credito del 20-30%, che sicuramente crea problemi al sistema, soprattutto alle medie imprese, che sono quelle ad aver bisogno di maggior credito. Attualmente le grandi imprese, quelle che hanno un indotto forte, si stanno “finanziando” mediante un rallentamento dei termini di pagamento. Con l’effetto di creare un maggior fabbisogno di credito da parte delle imprese piccole e medie.

La Bce nel suo ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria si attende ulteriori svalutazioni su titoli e prestiti per 283 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2010 da parte delle banche continentali. La loro solidità patrimoniale non è più al sicuro?

Il problema non è tanto la solidità patrimoniale, ma il mercato interbancario: le banche non si affidano fra loro perché ognuna sospetta che l’altra si trascini dietro, da molto tempo, crediti dubbi e insoluti che sono stati in qualche modo coperti da fondi specifici di rischio in maniera non adeguata. Ecco perché la Bce vuole che i bilanci siano al massimo della trasparenza, anche con prudenza esagerata, ma che si faccia finalmente luce sulla situazione patrimoniale, una volta per tutte.

È una preoccupazione giustificata?

Ritengo che possa aver ragione, perché molto probabilmente i fondi a copertura del rischio di insoluti sono sottovalutati - mi passi una stima - del 50% nei confronti del rischio. Ed è quindi possibile e auspicabile che su questo punto si faccia chiarezza definitivamente. D’altra parte non c’era bisogno della Bce, perché mi pare che la Banca d’Italia lo stia cercando di fare da tempo.

È d’accordo sull’istituzione di un’autorità di vigilanza finanziaria sovranazionale europea che faccia capo alla Bce?

Ritengo che la Banca d’Italia di Draghi faccia adeguatamente il suo mestiere. Nessuno più di Draghi, in qualità di presidente del Financial Stability Board, può dire se c’è bisogno o no di questa istituzione. Le dirò di più: soltanto se lo dicesse Draghi io crederei alla sua utilità.

Secondo lei possiamo sperare in una ripresa italiana dal 2010, come sembrano dire le più caute previsioni?

Di una cosa sono convinto: questo è il momento ideale per fare le riforme. Il governo, se vuole, è nella condizione di poterlo fare come mai è accaduto in passato. Tremonti finora ha fatto le cose giuste: ora bisogna mettere le riforme strutturali dentro un piano strategico complessivo di risanamento, da attuare entro fine anno. Se lo facessimo davvero, l’Italia sarebbe il paese in Europa con le maggiori possibilità di rilancio, perché la nostra struttura industriale è forte ed è in mano ai migliori imprenditori del mondo. Questo è il nostro vantaggio competitivo.

In questo piano strategico cosa c’è scritto alla voce “banche”?

Che si devono ripulire i conti delle banche e che le banche devono incominciare a interloquire con le migliori imprese. Lei vedrà se allora in un anno e mezzo non si risana l’economia italiana. Certo, all’interno di una situazione globale che rimane per tutti problematica e difficile, molto difficile.

In molti suoi scritti lei ha fornito una sua chiave di lettura della crisi economica. Che cosa non ha funzionato?

La crisi è originata da una serie di espedienti di politica economica adottati dal governo degli Stati Uniti per sostenere una crescita economica troppa bassa. Perché la crescita fosse così bassa, è il tema di un’altra puntata. Che cosa è stato usato invece per sostenere la crescita economica? Una serie di decisioni di carattere strategico e strumenti di carattere operativo totalmente sbagliati, che hanno progressivamente peggiorato la situazione e creato distruzione anziché moltiplicazione di ricchezza. Si da la colpa ai regolamenti. Ebbene, i regolamenti c’erano e i regolatori pure. Ma chiudevano gli occhi.

Ma allora serve più etica: più regole per arrivare a una finanza più virtuosa. È d’accordo?

Quando è arrivato il crack, i maestri di morale ci hanno puntualmente ricordato che mancano i valori. Ma io le chiedo: l’etica si legifera? Si insegna all’università? No, perché l’etica o si vive personalmente o non è. Come si fa allora a meravigliarsi che manchi l’etica quando non la si vive più da almeno una generazione, se non a livello individuale? Siamo entrati in una forma di relativismo morale, accettato e voluto, e la finanza fa parte oggi di questo contesto privo di valori.

La crisi finanziaria è stata il prodotto coerente di questo relativismo?

Certamente. Tentar di capire quello che è avvenuto facendo ricorso non a fattori morali ma ad argomentazioni prettamente tecniche vuol dire mettersi subito fuori strada. È stata una crisi morale a far sì che noi sostituissimo ad una crescita economica intelligente una crescita stupida, egoistica, inconsistente e insostenibile, portando il sistema di individui e famiglie dal generare risparmi al generare debito per anticipare anni e anni di consumi futuri.

Lei sembra accusare il sistema di avere strumentalizzato le persone. È così?

Le dirò di più: è possibile leggere la crisi come un radicale rovesciamento dell’ordine sussidiario che dovrebbe sussistere tra le persone e lo stato. La politica economica Usa, per poter garantire uno sviluppo economico ad ogni costo - anche a costo di avere un Pil drogato - ha fatto indebitare le famiglie al limite dell’inverosimile, indebolendole. Le famiglie americane hanno perso gran parte del valore dei loro investimenti, del loro fondo pensione e persino della loro casa. È stata applicata una politica economica di sussidiarietà rovesciata e quindi perversa, poiché lo stato ha sussidiato il cittadino, ma in modo strumentale ai suoi bisogni di potere. Col risultato finale, che certo non si aspettava, di distruggere non solo l’uomo-risparmiatore, ma anche l’intero sistema finanziario.