Ma oggi il portavoce del Consiglio dei Guardiani, l'organo incaricato di sovrintendere alla regolarità delle elezioni iraniane e di approvarne i risultati, ha escluso un annullamento del voto presidenziale del 12 giugno.
Abbas Ali Kadkhodai ha infatti dichiarato che ''Fortunatamente, nel corso delle recenti elezioni presidenziali, non abbiamo constatato alcuna frode o irregolarità di rilievo. Di conseguenza, non c'è alcuna possibilità di un annullamento''.
Intanto il ministero dell'Interno iraniano non ha autorizzato la protesta degli studenti islamici davanti all'ambasciata britannica a Teheran prevista per oggi, contro la "perversa" politica del governo britannico nei confronti dell'Iran.
Mentre Ahmadinejad presterà il giuramento per il suo secondo mandato da presidente tra il 26 luglio e il 19 agosto, sempre che nel frattempo gli eventi non prendano pieghe imprevedibili.
Qui di seguito una serie di articoli sugli sviluppi della situazione iraniana postelettorale in cui non è semplice districarsi per capire esattamente cosa sta avvendendo dietro le quinte.
Iran, la partita continua
di Mazzetta - Altrenotizie - 22 Giugno 2009
La rivolta iraniana non accenna a placarsi nonostante la repressione. Come in una partita a scacchi che non si concluderà sicuramente in pochi giorni, le pedine si muovono sullo scacchiere senza che agli spettatori sia dato capire le prossime mosse e le probabilità di vittoria dei giocatori e la partita risulta ancora più indecifrabile a chi non conosca la complessità della politica iraniana, spesso esemplificata oltre la realtà per esigenze di propaganda. A pochi giorni dall'eruzione della rivolta i rivali istituzionali rimangono sulle loro posizioni, ma alzano il livello dello scontro. Se da un lato Ahmadinejad iscrive il rivale Mousavi nell'elenco dei criminali e Khamenei appare ormai aver scelto il campo del presidente ufficialmente rieletto, sul fronte avverso Mousavi non desiste e si dichiara pronto al martirio, mentre tutto attorno a lui è un frenico trattare sottobanco per minare gli equilibri esistenti nella repubblica teocratica iraniana.
Fino ad ora il regime in carica sembra aver retto l'urto della protesta, ma gli sviluppi delle ultime ore non implicano affatto che la situazione possa risolversi felicemente per la fazione al potere. La rivolta si sviluppa su diversi piani e non è detto che la piazza, fino ad ora illuminata dalla rete, sia il campo di battaglia decisivo. Uno scontro fondamentale è in corso all'interno del Consiglio degli Esperti, su inpulso di Rafsanjani che lo presiede, l'unico organo che può rimuovere il supremo leader Khamenei. Di notevole interesse sono i colloqui in corso a Qom, il Vaticano sciita, ai quali parteciperebbero, oltre ai membri del consiglio, i principali leader religiosi, tra i quali al Sharistani e anche il “Papa” sciita, l'iracheno al Sistani. La sola esistenza di colloqui del genere segnala la possibilità di una soluzione “istituzionale”, tutta interna alla teocrazia.
Una soluzione del genere segnalerebbe che effettivamente la rivolta popolare rischia di travolgere lo stesso sistema teocratico e che esista un fondato timore del clero nei confronti dei possibili sviluppi in questo senso, tale da spingerlo, almeno, ad interrogarsi sulla necessità di una rapida autoriforma. Nello scontro tra le due fazioni la religione c'entra poco, c'entra invece moltissimo l'equilibrio fondato proprio sulla modesta figura di Khamenei, che negli anni si è trasformato da brutto anatroccolo nel perno di un sistema che degrada sempre di più verso l'estremismo religioso e il populismo.
A questo proposito c'è da segnalare in queste ore proprio l'arresto della figlia di Rafsanjani, avvenuto proprio a ridosso della richiesta dell'ex-presidente Khatami per la liberazione di tutti gli arrestati. Se dalla repressione in corso si può trarre l'impressione che il regime intenda giocare la partita fino in fondo, l'arresto della figlia di Rafsanjani e di molte personalità a lui vicine, rischia di segnare veramente il punto di non ritorno di un conflitto che molto difficilmente potrà vedere le due fazioni trovare punti d'accordo o d'equilibrio. Oltre ad essere indubbiamente provocatorio e offensivo per il padre, l'arresto rischia di mobilitare davvero la potenza economica della sua fazione che di fronte ad un attacco diretto e brutale potrebbe considerare venuta la necessità di giocarsi il tutto per tutto.
Se lo scontro istituzionale dovesse finire ai coltelli non è facile prevedere chi ne uscirà vincitore, anche perché all'interno del sistema teocratico iraniano esistono comunque molti centri di potere e molte differenze e divisioni che seguono intersecandoli i conflitti di classe, d'interesse, quelli religiosi e quelli etnici. Una polifonia molto più complessa del riassunto bipolare offerto dall'immagine del confronto tra due campi omogenei e una molteplicità di livelli molto più complessa del conflitto bidimensionale offerto dallo scontro di piazza.
Dalla parte di Ahmadinejad e Khamenei ci sono gli apparati di sicurezza, anche se non è chiaro con quale compattezza, visto che sono state già annunciate parecchie defezioni morali. Apparato che però di fronte a una decisa compattezza delle gerarchie clericali contro il leader supremo potrebbe anche cambiare di campo in misura significativa. Il presidente e il leader supremo possono anche contare su un vasto sostegno popolare, che però non sembra in grado di portare le masse amiche nelle strade contro gli avversari. Una cosa che non sembra potersi il regime è la repressione incontrollata, lo dimostra la reazione fino ad oggi, che nonostante la brutalità sembra molto al di sotto del “necessario”, segno della volontà e dell'impossibilità della repressione militare e radicale.
Accanto ai loro oppositori sembra che ci sia un numero sempre maggiore di iraniani, la repressione e i lutti non hanno sicuramente migliorato l'immagine del potere e già ora la protesta sembra aver raggiunto dimensioni con la quale il potere fatica a confrontarsi. L'Ayatollah Montazeri (figlioccio di Khomeini) ha chiesto agli iraniani una veglia funebre per i prossimi mercoledì e venerdì, un'iniziativa che ricorda i tempi della rivoluzione. Furono proprio gli scioperi e le veglie funebri a fiaccare il regime e a costringere il sovrano iraniano alla fuga dal paese, se queste proteste riuscissero a toccare l'animo della minoranza silenziosa, quella che non è ancora scesa in piazza, il regime non potrebbe che rinunciare alla repressione o andare allo scontro totale in drastica minoranza.
Attorno alla partita iraniana, che sembra proprio essere iniziata del tutto inattesa oltre le frontiere del paese, gli spettatori trattengono il fiato. Non è chiaro l'esito dell'incontro e non è chiaro nemmeno se sia nell'interesse di altri paesi disturbare lo scontro in corso, gli stessi Stati Uniti hanno scelto un profilo molto basso, presto emulati da molti altri paesi che per giorni hanno ufficialmente ignorato le vicende iraniane. Gli Stati Uniti avevano appena inaugurato la politica dell'approccio pragmatico nei rapporti con l'Iran e teso la mano al regime e sicuramente Obama è sincero quando dice che a lui e al Dipartimento di Stato “non è chiaro” se abbia senso sostenere Mousavi nelle sue rivendicazioni, anche le reazioni negative alla repressione hanno avuto un tono assolutamente temperato. Anche il governo israeliano, al quale faceva gioco la vittoria dell'estremista Ahmadinejad, ha lanciato la palla rovente nel campo di Obama, dichiarando che ne asseconderà le iniziative nei confronti dell'Iran. Una maniera come un altra di porsi, con poca spesa, come fedele alleato dopo i recenti attriti sul congelamento delle colonie israeliane nella West Bank e magari sperare che l'infuocarsi dell'Iran distragga gli USA dall'idea sgradita di dettare le mosse d'Israele.
Sembra che accanto alle persone comuni che scendono in piazza esponendosi, ci siano solo i loro omologhi in tutto il mondo, che solidarizzano per la lotta contro il regime, ma che simpatizzano per i rivoltosi soprattutto perché le identificano come vittime del potere, poco importa che sia quello della parte di Ahmadinejad o di quella di Mousavi. I dimostranti iraniani sembrano gli unici genuinamente, e forse ingenuamente, a difendere qualcosa di condivisibile e di fondamentale: la loro libertà. In tutto il mondo, dove ci sia o non ci sia libertà, uomini e donne non possono che sostenere il diritto alla parola e all'integrità fisica dei dimostranti iraniani, augurandosi che prima o poi riescano a liberarsi dalla morsa clericale e a sviluppare nuovi equilibri fondati sul confronto tra gli uguali piuttosto che sulle parole incerte di deità improbabili.
Siete pronti per la guerra contro il tanto demonizzato Iran?
di Paul Craig Roberts - Online Journal - 17 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Marco Orrù
Quanta attenzione ricevono dai media americani le elezioni in paesi come Giappone, India e Argentina? Quanti cittadini e giornalisti americani conoscono i capi di governo di paesi che non siano Inghilterra, Francia o Germania? Quanti sanno per esempio i nomi dei presidenti di Svizzera, Olanda, Brasile, Giappone o Cina?
Al contrario, tutti sanno chi è il presidente dell’ Iran, essendo questi demonizzato quotidianamente dai mezzi d’ informazione USA.
Questo fatto dimostra quanto l’ America sia ignorante. In Iran non é il presidente che detta le regole, tanto meno è egli il capo supremo delle forze armate. La sua politica non puó sconfinare oltre le regole dettate dagli ayatollah, i quali non sono disposti a rinunciare alla Rivoluzione iraniana in cambio dell’ assoggettamento agli Stati Uniti.
Gli iraniani hanno avuto un’ esperienza dolorosa col governo USA. la prima elezione democratica negli anni 50, dopo un periodo di occupazione e colonizzazione, venne boicottata dagli Stati Uniti, i quali misero al potere, al posto del candidato legittimamente eletto, un dittatore sanguinario che torturó e condannó a morte i dissidenti che pensavano che l’ Iran dovesse essere uno stato indipendente dal potere degli USA.
La superpotenza americana non ha mai perdonato agli ayatollah la rivoluzione alla fine degli anni ‘70 che prese le distanze dal potere USA e durante la quale vennero tenuti in ostaggio dei funzionari dell’ ambasciata americana ritenuti delle spie, mentre gli studenti ricomposero i documenti strappati che provavano la complicitá del governo statunitense nella distruzione della democrazia in Iran.
I mezzi d’ informazione propagandistica controllati dal governo hanno risposto alla rielezione di Ahmadinejad con servizi non stop sulla violenta protesta degli iraniani a seguito del risultato elettorale. L’ invaliditá delle elezioni viene presentata come un fatto nonostante non ci sia la minima prova al riguardo. Davanti invece alle prove documentate del boicottaggio USA, i media reagirono nell’ era Gorge Bush/Karl Rove semplicemente ignorando i documenti su cui si basavano tali prove.
Da governi fantoccio, la Gran Bretagna e la Germania stanno seguendo la linea della guerra psicologica attuata dagli Stati Uniti. Il segretario degli esteri britannico, David Miliband, in un convegno dei ministri della Unione Europea tenutosi in Lussemburgo ha espresso seri dubbi sulla validitá delle elezioni in Iran, il tutto senza l’utilizzo di fonti indipendenti. Egli segue semplicemente le direttive di Washington basate sulle dichiarazioni e la protesta del candidato perdente, appoggiato dagli Stati Uniti.
Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha sollecitato l’ ambasciatore iraniano affinché ci sia ‘piú trasparenza’ sul risultato elettorale.
La propaganda del governo USA è appoggiata anche dalla sinistra interna. In un articolo apparso nel The Nation, Robert Dreyfuss riporta le dichiarazioni isteriche di un dissidente iraniano come veritá assolute, parlando addirittura di colpo di stato.
Su quali fonti si basano le notizie diffuse dagli USA e dagli stati fantoccio?
Solamente sulle dichiarazioni del candidato perdente.
Da un sondaggio condotto in Iran da Ken Ballen del Center for Public Opinion e da Patrick Doherty del New America Foundation (entrambe associazioni nonprofit), fonti quindi indipendenti, risulta il contrario della situazione descritta dai media ufficiali. Il sondaggio è stato finanziato dal Rockfeller Brothers Fund ed è stato condotto in persiano (farsi) da una squadra il cui lavoro nella regione per ABC News e BBC ha ricevuto il premio Emmy. I risultati sono stati pubblicati nel Washington Post del 15 giugno.
Per i risultati si segua il link
Da quel sondaggio risulta che il risultato elettorale rispecchia il volere della maggior parte degli iraniani. Il sondaggio rivela inoltre importanti informazioni:
“Molti esperti ritengono che la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad sia il risultato di frode e manipolazioni; il risultato dell’ inchiesta svolta in tutta la nazione tre settimane prima delle elezioni rivela invece che Ahmadinejad era il favorito con un margine di 2 a 1. questo margine risulta per giunta essere maggiore di quello raggiunto nelle elezioni di venerdí”.
“Mentre gli inviati occidentali a Teheran nei giorni prima delle elezioni descrivevano un’ opinione pubblica entusiasta per l’ avversario principale di Ahmadinejad, Hossein Mousavi, i nostri sondaggi condotti in tutte le 30 provincie dell’ Iran dimostrano che invece il favorito era proprio Ahmadinejad”.
“Il largo consenso per Ahmadinejad risulta chiaro dall’ indagine condotta prima delle elezioni. Durante la campagna elettorale Mousavi faceva riferimento alla propria etnia azera come secondo maggior gruppo in Iran dopo quello persiano, al fine di procurarsi consensi da parte degli appartenenti alla medesima etnia. Dalla nostra ricerca risulta al contrario che le preferenze degli azeri andavano ad Ahmadinejad con un margine di 2 a 1”.
“Molta attenzione è stata data ai giovani iraniani e al ruolo di internet come decisivi nelle elezioni di venerdí. Il nostro sondaggio al contrario ha dimostrato che soltanto un terzo degli iraniani ha accesso a internet, mentre la fascia d’ etá compresa tra i 18 e i 24 anni è risultata la piú favorevole ad Ahmadinejad rispetto alle altre”.
“Il solo gruppo sociale che è risultato favorevole a Mousavi è quello degli studenti universitari e dei laureati, nonché delle fasce piú agiate. All’ epoca del sondaggio c’ era inoltre quasi un terzo degli iraniani ancora indecisi, ma nonostante ció i risultati rispecchiano le previsioni statistiche e una frode a tali livelli risulta perció da escludere”.
Numerose fonti ritengono che gli USA abbiano attuato un piano per destabilizzare l’ Iran, finanziando bombardamenti e omicidi all’ interno della nazione. I mezzi d’ informazione statunitensi considerano questa strategia un esempio di come gli USA riescano a disciplinare gli stati ribelli, mentre i media esteri la vedono come la conferma dell’ immoralitá americana.
Lunedì 15 giugno il vecchio capo militare pakistano, il generale Mirza Aslam Beig, ha detto a Radio Pashtu che l’ intelligence ha prove inconfutabili dell’ interferenza americana nelle elezioni iraniane. “I documenti provano che la CIA ha speso 400 milioni di dollari per finanziare una sensazionale ma fittizia rivolta che doveva seguire le elezioni”.
I successi del governo statunitense nel finanziare simili messe in scena nella vecchia Georgia e Ucraina e in altre parti del vecchio impero sovietico sono stati ampiamente riportati e discussi. Tali successi vengono visti dai media americani come facenti parte del “diritto naturale” degli Stati Uniti come superpotenza, e da alcuni media esteri come segno dell’ arroganza USA nell’ immischiarsi negli affari interni di altri stati. In altri termini, c’è una reale possibilitá che il signor Hossein Mousavi faccia parte del complotto USA.
Che gli Stati Uniti stiano portando avanti una guerra psicologica a scapito dei cittadini americani e stranieri attraverso diversi mezzi d’ informazione è un fatto; al riguardo sono stati pubblicati molti articoli.
Si provi a pensare alle elezioni iraniane in un’ ottica razionale. La maggior parte dei lettori non ha conoscenze approfondite sulla situazione iraniana; usando peró il senso comune: se ci fosse il pericolo costante di un attacco al nostro paese, diciamo pure con armi nucleari, da parte di due potenze militari di gran lunga piú potenti delle nostre (come ad esempio nel caso di USA e Israele nei confronti dell’ Iran), saremmo capaci di scegliere il candidato appoggiato da quei due stati a scapito di colui che vuole difendere il nostro paese?
È credibile che l’ Iran abbia votato per diventare uno stato vassallo degli Stati uniti?
La societá iraniana è ricca in quanto ha radici molto antiche, e comprende una classe intellettuale che è laica. Una parte (anche se piccola) della gioventú ha cominciato ad adottare alcune delle abitudini tipiche delle societá occidentali quali la promiscuitá sessuale, la ricerca del piacere immediato e l’egocentrismo. Risulta cosi facile per l’ America corrompere queste fasce di popolazione affinché cerchino di contrastare il proprio governo e le regole di condotta dettate da una civiltá islamica.
Il governo USA trae vantaggio dagli iraniani filo-occidentali che contribuiscono a screditare sia il risultato elettorale che il governo iraniano stesso.
Il 14 giugno il McClatchy Washington Bureau, il quale a volte tenta di dare notizie credibili, ha concordato che esiste una guerra psicologica in corso protratta da Washington ed ha dichiarato: ” il risultato delle elezioni in Iran rende gli sforzi di Obama per il controllo dello territorio assai ardui”. Questa non é altro che l’ ammissione del fallimento diplomatico; fallimento che lascia aperta soltanto la soluzione militare.
Avendo vissuto tutto questo dall’ interno del governo USA, sono convinto che l’ America stia cercando di gettare fango sul governo iraniano, dipingendo quest’ ultimo come oppressore del popolo e della sua volontá. In questo modo gli Stati Uniti cercano di aprirsi la via per un attacco militare.
Con l’ aiuto di Mousavi gli Stati Uniti stanno creando un altro “popolo oppresso”, precisamente come accadde per gli iracheni sotto Saddam Hussein, in modo che l’ intervento americano risulti necessario. Puó forse essere che il candidato Mousavi sia stato scelto dal governo USA per diventare il presidente vassallo in Iran?
La superpotenza americana sarebbe ben felice di ristabilire l’ egemonia sull’ Iran, rendendo il colpo agli ayatollah che la privarono di tale egemonia nel 1978.
Il copione lo si vede ogni minuto nelle televisioni statunitensi.
Esiste una squadra interminabile di esperti che sostengono la linea USA. un esempio tra tanti, Gary Sick , che in passato ha fatto parte del National Security Council e attualmente insegna alla Columbia University.
“se fossero stati piú accorti e avessero detto che Ahmadinejad ha raggiunto il 51%, gli iraniani sarebbero stati si dubbiosi, ma avrebbero accettato il risultato- ha detto Sick- il fatto è che la vittoria di Ahmadinejad col 62.6% non è credibile”.
“il passaggio dalla legittimazione e supporto popolare ad una situazione in cui si esercita la repressione sulla popolazione favorisce un punto di stagnamento nella Rivoluzione iraniana”, ha continuato Sick.
Le sole informazioni dettagliate che abbiamo sono quelle date dal sondaggio: Ahmadinejad era il favorito con un margine di 2 a 1.
Ma, come in tutte le questioni che hanno a che fare con l’ egemonia dell’ America su altri popoli, non sono i fatti e la veritá che contano: ció che conta sono le bugie e la propaganda.
Le elezioni in Iran. Cerchiamo di capire
di Franco Cardini - www.francocardini.net - 17 Giugno 2009
Ad alcuni giorni dalle ultime elezioni in Iran, i media di tutto il mondo occidentale, sia pure con qualche sfumatura, ci hanno proposto uno schema interpretativo abbastanza semplice. L’Iran è guidato da un regime fondamentalista che tuttavia mantiene alcune parvenze di democrazia e di pluralismo (molti partiti politici, giornali e televisioni differenti ecc.); le ultime elezioni sono state pesantemente manipolate, sia attraverso il sistematico uso dell’intimidazione e della repressione, sia attraverso autentici brogli elettorali (perfino urne scambiate); tuttavia, dinanzi alla massiccia, coraggiosa e prolungata protesta popolare, le autorità si sono spinte fino a promettere un riconteggio dei voti; senonché, a detta di alcuni osservatori e di taluni oppositori, tale riconteggio non porterebbe a nulla sia perchè si svolgerebbe comunque in un clima d’incertezza e di violenza, sia perchè le autentiche schede sono state almeno in buona parte distrutte e sostituite; per cui, l’unica strada possibile per un qualche ristabilimento della legalità democratica sarebbe procedere a nuove elezioni sotto lo stretto controllo di osservatori delle Nazioni Unite, cosa che il governo non è disposto a concedere. Si sta quindi andando o verso una situazione di compromesso che non piacerà a nessuno, soprattutto alle opposizioni; o verso uno scontro frontale.
Un quadro semplice. Ma tutti i problemi hanno sempre una risposta semplice. Peccato solo che, di solito, si tratti di quella sbagliata. Il punto di partenza, per noi, non può essere che una constatazione. Quella iraniana è una società complessa. Cerchiamo quindi di capirci qualcosa.
I media occidentali hanno quasi tutti e costantemente cercato di accreditare l’idea che in Iran viga una “dittatura”. In passato – ricordate le proteste del 1999, che nel nostro paese unirono destra e sinistra? – si è accusato di essere una specie di dittatore perfino Khatamy, oggi considerato un garante dei valori democratici; eppure, a suo tempo, gli attacchi da parte dell’Occidente furono una delle cause della sua sconfitta.
L’Iran non è soggetto ad alcuna dittatura. Il suo è piuttosto l’equilibrio complesso e non facile a riformarsi tra una società civile che per certi versi ricorda piuttosto il primitivo sistema sovietico – una pluralità di soggetti politici fluidi e litigiosi – controllato però da un “senato” religioso. Questo sistema sta cercando con scarso successo d’ingabbiare una società civile anagraficamente giovane, in generale colta e preparata (l’Iran e uno dei paesi che conta più laureati al mondo), dove l’occidentalizzazione frutto d’una sessantina d'anni circa di governo europeizzante della dinastia Pahlevi ha inciso fortemente, ma dove la “rivoluzione islamica” del 1979 è stata sul serio corale e popolare. Alla vigilia delle ultime elezioni, si è molto parlato di “conservatori” e di “riformisti” (termini superficiali e inadeguati rispetto alla situazione concreta), ma si è “dimenticato” di osservare come i quattro candidati avevano nei rispettivi programmi elettorali alcuni punti in comune: alla rivendicazione di un forte orgoglio nazionale, la ferma intenzione di procedere sulla linea della rivoluzione vinta nel ’79 da Khomeini, la volontà di continuare il programma teso a dotare il paese di un potenziale nucleare a scopi pacifici.
I candidati erano quattro: Mahmoud Ahmedinejad, cinquantatreenne, che ha promesso di continuare sulla sua strada; Houssein Mousavi”, sessantesettenne, un’esperienza di primo ministro nel 1981, che rimprovera ad Ahmedinejad una politica estera dai toni troppo accesi che gli avrebbe alienato tutto l’Occidente e confida in Obama per avviare un processo di distensione; Mohsen Rezai, cinquantasettenne, ex generale dei pasdaran, che rinfaccia ad Ahmedinejad scarsa abilità e molta trascuratezza nella conduzione economico-finanziaria del paese; e Mehdi Karrubi, settantaduenne, membro del “clero” sciita, ex presidente del parlamento, considerato un “riformista”.
La costituzione iraniana è un modello di complesso equilibrio di forze. Il suo motore è il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione (dodici membri, per metà religiosi nominati dalla Guida Suprema e per metà giuristi nominati dal Parlamento), che seleziona i candidati alle istituzioni statati, può opporre il veto alle leggi approvate dal Parlamento e propone una lista di candidati al ruolo di Vali-e faqih (Guida Suprema) a un’Assemblea degli Esperti eletta dal popolo. La Guida Suprema ha praticamente le prerogative di un capo di stato in una repubblica strettamente presidenziale, in particolare il diritto di nomina delle alte cariche statali. Invece il Presidente della Repubblica, in carica 4 anni, è una specie di capo del governo e nomina i ministri (salvo approvazione del Parlamento).
Quel che ora è in atto è un braccio di ferro tra il “partito dei religiosi”, che in realtà è fautore di un programma di distensione con l’Occidente e si appoggia a un elettorato nel quale i ceti benestanti sono molto forti, e quello che Renzo Guolo (“La Repubblica”, 17.6.2009) chiama il partito dei “senza-turbante”, gli islamisti radicali seguaci di Ahmedinejad che propugnano una politica sociale più decisa e hanno l’appoggio dei ceti più poveri della popolazione. Contrariamente a quel che si tende a creder da noi, i più estremisti sono i “laici”, non i “religiosi” che portano il turbante. Ma Ahmedinejad negli ultimi quattro anni ha governato con il pieno appoggio di Ali Khamenei, lo ayatollah Guida Suprema: e ha riempito i suoi diretti collaboratori e i suoi seguaci di poteri, di privilegi, anche di danaro. E’ ovvio che ora essi vogliano tener duro: il loro obiettivo, del resto, è trasformare la repubblica islamica in un vero e proprio regime.
Tuttavia il punto debole degli avversari di Ahmedinejad, i moderati appoggiati da buona parte del clero, è proprio la corruzione: uno degli uomini piu ricchi dell’Iran è il Presidente dell’Assemblea degli Esperti, Akbar Hashemi Rafsanjani: e i suoi cospicui patrimoni sono alquanto sospetti. Il suo ruolo è comlesso e cruciale: egli è in realtà presidente del “Consiglio per la determinazione del bene comune” (majma’e tashkhis e maslahat, spesso tradotto in inglese con “Expediency Council”, perchèèe l’organismo che può rendere “islamica” – per mezzo appunto di un “espediente” giuridico – una legge che islamica non è, sulla base dell’interesse comune) e appunto l’Assemblea degli esperti (majles-e khobregan), che in linea istituzionale ha il potere di destituire la stessa Guida Suprema. Forse esagerano dunque coloro che parlano, a proposito dei brogli e delle violenze, di un “colpo di stato” da parte di Ahnedinejad e dei suoi fautori. Certo però lo scontro è stato violento e l’opposizione sembra ben piu numerosa del 35% che sarebbe emerso dai conteggi ufficiali; in ogni caso, è agguerrita e non intenzionata a cedere. E un commento uscito il 14 giugno dall’autorevole penna di Ali Ansari fa pensare che i brogli ci siano stati davvero, per quanto sia difficile il provarlo.
Che cos’hanno quindi portato di nuove, queste elezioni? I conteggi ufficiali parlano di un 65% guadagnato da Ahmedinejad: ma le proteste della minoranza, soprattutto dei fautori di Mousavi, sono state tante e tanto dure e corali da indurre il prudente Khamenei a promettere un riconteggio dei voti. Alle opposizioni, ciò non basta: ma, anche se appare difficile che il governo iraniano acceda alla loro pretesa di un controllo dell’ONU su nuove elezioni – e bisogna dire che nessun paese sovrano accetterebbe mai una condizione del genere -, l’eco internazionale di quel che sta accadendo in Iran è stato troppo forte e corrisponde a una vera e propria sconfitta politica di colui che almeno formalmente è il trionfatore elettorale.
Con tutto ciò, non bisogna dimenticare due cose. Primo, la sostanziale coralità e fermezza di tutti gli schieramenti politici sui fondamenti della repubblica islamica e della sua stessa politica estera. Opposizione all’America, richiesta di soluzione del problema palestinese, esigenza di proseguire sul cammino dell’acquisizione del nucleare civile pur nel rispetto del trattato di non-proliferazione. Se questa è una crisi, lo è nel, non del sistema. E Ahmedinejad, che è subito volato a Mosca, lo ha confermato: l’era dell’impero unilateralistico statunitense è finita, il suo paese è tutt’altro che isolato, l’asse con la Russia tiene, i rapporti con la Cina e con molti paesi dell’America latina sono buoni.
D’altronde, anche da parte occidentale si sono fatti degli errori. E’ vero che la censura governativa è intervenuta pesantemente contro alcuni giornalisti, ma è non meno vero che molti servizi usciti dall’Iran durante e subito dopo la competizione elettorale non brillavano per equità: filmavano esclusivamente le manifestazioni dell’opposizione, mandavano in onda interviste prese solo nei quartieri della buona borghesia di Teheran da sempre roccaforte degli avversari di Ahmedinejad e perfino dei nostalgici dello shah. Ci sono senza dubbio state violenze: mancano però le prove che le urne siano state sostituite e, quanto alle vittime, una decina di morti e centinaia di feriti sono senza dubbio un bilancio pesante: ma non certo un bilancio da tirannia. La repressione dei basaji – le milizie paramilitari ahmedijaniste – ha dato risultati piu simili a quella di Genova in occasione del G 8 del 2001 che non a quella di piazza Tienammen: e ciò vorrà ben dire qualcosa. Un pacato commento di Abbas Barzegar sul “Guardian” del 13 scorso, un organo molto autorevole, sottolinea che Teheran all’indomani delle elezioni sembrava sì in rivolta, ma soltanto su due viali dell’area settentrionale abitata dai ceti benestanti, mentre nel resto della città le manifestazioni di giubilo dei sostenitori di Ahmedinejad erano diffuse, imponenti e spontanee.
L’episodio politico al quale stiamo assistendo è insomma un momento “caldo” della lotta per il potere tra due fazioni: da una parte i moderati che hanno la loro punta di diamante in Rafsanjani e i loro esponenti in Mousavi e Khatami, e che auspicano una distensione con l’Occidente contando sull’apertura dimostrata da Obama; dall’altra i radicali il vero capo dei quali resta Khamenei, che mirano a un rafforzamento del carattere islamico dello stato e che credono non tanto nell’intesa con l’Occidente, quanto nella creazione di un fronte internazionale politicamente, economicamente, tecnologicamente e militarmente alternativo ad esso. Obiettivo ultimo del fronte radicale è la trasformazione della jomhuri , la Repubblica Islamica, in un “Sistema” – nezam, così definisce costantemente la stato islamico l’ispiratore religioso di Ahmadinejad, l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah-e Yazdi – non contaminato da strutture politiche non islamiche. Il fatto che la Guida Suprema abbia ammesso la possibilità dei riconteggi (quindi, implicitamente, dei brogli) fa intravedere un progetto tattico teso a evitare sia lo scontro frontale sia la repressione troppo pesante facendo “rientrare” la protesta mediante patteggiamenti e concessioni politiche.
Restano comunque del tutto inutili per comprendere la situazione, anzi pericolosi e dannosi, gli appelli come quello lanciato sul “Corriere” del 16 scorso da Bernard-Henry Lévy: il clima a Teheran è pesante, ma non “di terrore”; e il riferimento a un eventuale rafforzamento di Ahmedinejad come “un pericolo terribile per il mondo intero, perchè dotato di un arsenale nucleare che non esiterebbe a mettere immediatamente al servizio dell’Imam nascosto e della sua apocalittica riapparizione” sarebbe solo ridicolo, se non fosse irresponsabile. Tutti sanno che l’Iran non dispone ancora nemmeno del nucleare civile: come potrebbe mai minacciare sul serio di distruzione nucleare Israele, che invece il nucleare militare ce l’ha eccome? E si può davvero continuare a fingere di non sapere che eventuali pulsioni fondamentaliste e apocalittiche allignano anche in Israele, e che da lì non sono mancate voci che hanno affermato di esser pronte a servirsi dell’arma nucleare?
Sono state comunque elezioni importanti. Auguriamoci che esse non conducano a un aggravarsi della tensione – ma la prospettiva d’una “guerra civile” appare improbabile - o al prevalere della repressione nella sua forma più dura, che condurrebbe all’autoritarismo teorizzato da Mesbah-e Yazdi. La richiesta di nuove elezioni, avanzata ora con fermezza dalle opposizioni, serve in realtà ad alzare il costo della normalizzazione della vita civile: forse si punta a un “governo di unità nazionale”, nel quale il potere di Ahmedinejad verrebbe ridimensionato. I principi della repubblica islamica, quelli del 1979, appaiono ben radicati tra gli iraniani e confermati dal fatto che tutti gli schieramenti li condividono: che a Mousavi sia andato anche il voto degli antikhomeinisti irriducibili è poco rilevante, dal momento che essi sono obiettivamente una minoranza.
Ma il vero duello è tra la fazione di Khamenei e quella di Rafsanjani-Khatami, che prospettano due differenti configurazioni del sistema mondiale di alleanze. Il prevalere dei “moderati” dipenderà dunque in una qualche misura dalle mosse dell’Occidente, soprattutto del presidente degli Stati Uniti: al quale spetta il difficile compito di comporre le esigenze di riaprire il dialogo con l’Iran con le richieste che gli provengono da Israele, e che a loro volta sono spesso ispirate da istanze estremistiche. Questo appare, a tutt’oggi, il vero rischio.
La CIA e il laboratorio iraniano
di Thierry Meyssan - www.voltairenet.org - 20 Giugno 2009
La notizia di una possibile frode elettorale si è sparsa per Teherán alla velocità della luce e ha fatto scendere in piazza i sostenitori dell’ayatollah Rafsanjani contro quelli dell’ayatollah Khamenei. Questo caos è stato provocato dietro le quinte dalla CIA, che semina la confusione sommergendo gli iraniani di SMS contraddittori. Thierry Meyssan spiega questo esperimento di guerra psicologica.
Nel marzo del 2000 la segretaria di Stato Madeleine Albright ha riconosciuto che l’amministrazione Eisenhower organizzò un cambio di regime in Iran nel 1953 e che questo avvenimento storico spiega l’attuale ostilità degli iraniani per gli Stati Uniti. La settimana passata, durante il suo discorso al Cairo rivolto ai mussulmani, il presidente Obama ha riconosciuto ufficialmente che «in piena Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo nell’abbattimento di un governo iraniano eletto democraticamente (1). A quell’epoca, l’Iran era controllato da una monarchia da operetta diretta dallo Shah Mohammad Reza Pahlavi. Questi era stato insediato sul trono dai britannici, che avevano obbligato suo padre, l’ufficiale cosacco filonazista Reza Pahlavi, a dimettersi. Però lo shah si ritrovava un Primo Ministro nazionalista, Mohammed Mossadeq. Quest’ultimo, con l’appoggio dell’ayatollah Abu al-Qassem Kachani, nazionalizzò le risorse petrolifere (2).
Furiosi, i britannici convinsero gli Stati Uniti a fermare la deriva iraniana prima che il paese sprofondasse nel comunismo. Allora la CIA mise in moto l’«Operazione Ajax», diretta ad abbattere Mossadeq con l’aiuto dello shah e sostituirlo con il generale nazista Fazlollah Zahedi, fino allora imprigionato dai britannici. Zahedi instaurò il regime di terrore più crudele dell’epoca, mentre lo shah faceva da copertura ai suoi abusi posando per le riviste di gossip occidentali.
L’Operazione Ajax fu diretta dall’archeologo Donald Wilber, lo storico Kermit Roosevelt (nipote del presidente Theodore Roosevelt) e dal generale Norman Schwartzkopf senior (il cui figlio omonimo fu comandante dell’Operazione Tormenta nel Deserto). Tale operazione è tuttora un modello di sovversione. La CIA progetta uno scenario che dà l’impressione di una sollevazione popolare mentre si tratta di un’operazione segreta. Il punto culminante dello spettacolo fu una manifestazione a Teheran, con 8.000 comparse pagate dall’Agenzia, per fornire foto convincenti alla stampa occidentale (3).
La storia si ripete? Washington ha rinunciato ad attaccare militarmente l’Iran e ha dissuaso Israele da prendere questa iniziativa. Per ottenere un «cambio di regime», l’amministrazione Obama preferisce giocare la carta -meno pericolosa anche se più incerta- dell’azione segreta. In occasione delle elezioni presidenziali iraniane, grandi manifestazioni contrappongono nelle piazze di Teheran i sostenitori del presidente Mahmud Ahmadinejad e la sua guida Ali Khamenei da una parte e i sostenitori del candidato sconfitto Mir Hossein Moussavi e dell’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani dall’altra. Tali manifestazioni riflettono una profonda divisione nella società iraniana tra un proletariato nazionalista e una borghesia che lamenta la sua emarginazione dalla globalizzazione economica (4). Agendo dietro le quinte, Washington cerca di influire sugli avvenimenti per abbattere il presidente rieletto.
Ancora una volta l’Iran è un terreno di sperimentazione di metodi innovativi di sovversione. Nel 2009 la CIA si basa su una nuova arma: il controllo dei telefoni cellulari.
Da quando c’è stata una diffusione generalizzata dei cellulari, i servizi segreti anglosassoni hanno moltiplicato le loro capacità di intercettazione. Mentre l’ascolto dei telefoni fissi necessita dell’installazione di cavi di derivazione, e pertanto di agenti sul terreno, l’ascolto dei cellulari si può fare a distanza grazie alla rete Echelon. Tuttavia questo sistema non permette di intercettare le comunicazioni telefoniche via Skype, e da qui il successo dei telefoni Skype nelle zone di conflitto (5). Così la National Security Agency (NSA) ha di recente proposto ai provider di tutto il mondo di fornire la loro collaborazione. Quelli che hanno accettato sono stati retribuiti generosamente (6).
Nei Paesi che occupano -Iraq, Afghanistan e Pakistan- gli anglosassoni intercettano tutte le conversazioni telefoniche effettuate tramite cellulari o in connessione con questi. L’obiettivo non è quello di ottenere trascrizioni di questa o quella conversazione, ma individuare le «reti sociali». In altre parole i telefoni sono i delatori che permettono di conoscere con chi si relaziona una certa persona. A partire da qui si possono individuare le reti di resistenza. Successivamente i telefoni permettono di localizzare gli obiettivi individuati e «neutralizzarli».
Per questo nel febbraio 2008 i ribelli afghani hanno ordinato ai diversi gestori di interrompere le loro attività tutti i giorni dalle 17:00 alle 3:00, per impedire che gli anglosassoni seguissero i loro movimenti. Le antenne di quelli che non hanno obbedito a quest’ordine sono state distrutte (7).
Al contrario (eccetto la centrale telefonica danneggiata per errore), l’esercito israeliano si è ben guardato di bombardare le antenne telefoniche a Gaza durante l’operazione Piombo Fuso nel dicembre 2008-gennaio 2009. Qui compare un cambiamento totale di strategia da parte degli occidentali. Dalla guerra del Golfo prevaleva la «teoria dei cinque anelli» del colonnello John A. Warden: il bombardamento delle infrastrutture telefoniche era considerato un obiettivo strategico per diffondere la confusione nella popolazione e contemporaneamente interrompere le comunicazioni tra i centri di comando e i combattenti. Ora è il contrario, è necessario proteggere le infrastrutture delle telecomunicazioni. Durante i bombardamenti di Gaza, l’operatore Jawwal (8)ha fornito credito ai suoi abbonati, ufficialmente per aiutarli, in realtà per interesse degli israeliani.
Spingendosi più oltre, i servizi segreti anglosassoni e israeliani hanno sviluppato metodi di guerra psicologica basati sull’utilizzo estensivo dei cellulari. Nel luglio 2008, dopo lo scambio di prigionieri e cadaveri tra Israele e Hezbollah, i robot hanno inviato decine di migliaia di chiamate ai cellulari libanesi. Una voce in arabo avvertiva di non partecipare in alcun modo alla resistenza e denigrava Hezbollah. Il ministro libanese delle Telecomunicazioni Jibran Bassil (9), ha presentato una denuncia all’ONU contro questa flagrante violazione della sovranità del Paese (10).
Sulla stessa linea, decine di migliaia di libanesi e siriani ricevettero una chiamata automatica, nell’ottobre 2008, che offriva 10 milioni di dollari per qualsiasi informazione che permettesse di localizzare e liberare i soldati israeliani prigionieri. Le persone interessate a collaborare dovevano rivolgersi a un numero nel Regno Unito (11).
Questo metodo viene ora utilizzato in Iran per intossicare la popolazione con la diffusione di notizie allarmistiche e per canalizzare il malcontento che suscitano.
In primo luogo è stata diffusa via SMS durante la notte dello scrutinio la notizia che il Consiglio dei Guardiani della Costituzione (equivalente al Tribunale Costituzionale) aveva informato Mir Hossein Moussavi della sua vittoria. Così l’annuncio, diverse ore dopo, dei risultati ufficiali -la rielezione di Mahmud Ahmadinejad con il 65% dei voti- apparve come un’enorme frode. Tuttavia, tre giorni prima, Moussavi e i suoi amici consideravano sicura la netta vittoria di Ahmadinejad e si sforzavano di spiegarla con gli squilibri nella campagna elettorale. Così l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani articolava le sue lamentele in una lettera aperta. Gli istituti statunitensi di sondaggi in Iran pronosticavano un vantaggio di Ahmadinejad di 20 punti su Moussavi (12). In nessun momento è parsa possibile la vittoria di Moussavi, anche se è probabile che i brogli abbiano accentuato il margine tre i due candidati.
Successivamente sono stati selezionati dei cittadini tra quelli che si sono fatti conoscere in Internet per conversare su Facebook o tra gli abbonati alle linee di informazione Twitter. Quindi hanno ricevuto, sempre tramite SMS, le informazioni -vere o false- sull’evoluzione della crisi politica e sulle manifestazioni in corso. Si trattava di messaggi anonimi che diffondevano notizie di sparatorie e di numerosi morti; notizie che ad oggi non hanno avuto conferma. Per una sfortunata coincidenza di calendario, l’impresa Twitter ha dovuto sospendere il servizio per una notte, il tempo necessario per la manutenzione delle sue installazioni. Ma il Dipartimento di Stato USA è intervenuto per obbligarla a sospendere questa operazione (13). Secondo il New York Times, queste azioni hanno contribuito a seminare la sfiducia nella popolazione (14).
Simultaneamente, con un nuovo sforzo, la CIA ha mobilitato i militanti anti iraniani negli Stati Uniti e nel Regno Unito per aumentare il disordine. E’ stata distribuita una Guida pratica della rivoluzione in Iran, che comprende vari consigli pratici tra i quali:
- Impostare gli account Twitter sul fuso orario di Teheran.
- Centralizzare i messaggi sugli account Twitter@stopAhmadi, iranelection e gr88.
-Non attaccare i siti internet ufficiali dello Stato iraniano. «Lasciate fare all’esercito» USA per questo (sic).
Una volta attuati, questi consigli impediscono qualsiasi autentificazione dei messaggi Twitter. Non si può più sapere se li inviano testimoni delle manifestazioni a Teheran o agenti della CIA da Langley, e non si può distinguere il vero dal falso. L’obiettivo è quello di creare ancora più confusione e spingere gli iraniani a combattersi tra loro.
Gli stati maggiori di tutto il mondo seguono con attenzione gli avvenimenti a Teheran. Tutti cercano di valutare l’efficacia di questo nuovo metodo di sovversione nel laboratorio iraniano. E’ ovvio che il processo di destabilizzazione ha funzionato. Ma non è sicuro che la CIA possa canalizzare i manifestanti perché essi stessi facciano quello che ha rinunciato a fare il Pentagono se non desiderano farlo: cambiare il regime, chiudere con la rivoluzione islamica.
NOTE
(1) «Discurso en la Universidad de El Cairo», Barack Obama, 4 giugno 2009.
(2) «BP-Amoco, coalition pétrolière anglo-saxonne», Arthur Lepic, Rèseau Voltaire, 10 giugno 2004.
(3) Sul golpe del 1953, l’opera di riferimento è All the Shah’s Men: An American Coup and the Toots of Middle East Terror, di Stephen Kinzer, John Wiley & Sons editori (2003), 272 pp.
(4) «La société iranienne paralysée», Thierry Meyssan. Réseau Voltaire, 5 febbraio 2004.
(5) «Taliban using Skype phones to dodge MI6», Glen Owen, Mail Online, 13 settembre 2008.
(6) «NSA offering ’billions’ for Skype eavesdrop solution», Lewis Page, The Register, 12 febbraio 2009.
(7) «Taliban Threatens Cell Towers», Noah Shachtman, Wired, 25 febbraio 2008.
(8) Jawwal è il marchio di PalTel, la società del multimilionario palestinese Munib Al-Masri.
(9) Jibran Bassil è uno dei principali leader della Corrente Patriottica Libera, il partito nazionalista di Michel Aoun.
(10) «Freed Lebanese say they will keep fighting Israel», Associated Press, 17 luglio 2008.
(11) L’autore di questo articolo è stato testimone di queste chiamate. Si consulti anche «Strange Israeli phone calls alarm Syrians. Israeli Intelligence services accused of making phone calls to Syrians in bid to recruit agents», Syria News Briefing, 4 dicembre 2008.
(12) Citato in «Ahmadinejad won. Get over it», Flynt Leverett e Hillary Mann Leverett, Politico, 15 giugno 2009.
(13) «U.S. State Department speaks to Twitter over Iran", Reuters, 16 giugno 2009.
(14) «Social Networks Spread Defiance Online», Brad Stone e Noam Cohen, The New York Times, 15 giugno 2009.
Thierry Meyssan, giornalista e scrittore, presidente del Réseau Voltaire.Iran: il ruolo di Londra, accusata di essere dietro le violenze
di Leila Mazboudi - Al Manar - 21 Giugno 2009
La storia si ripete, è quello che i dirigenti iraniani sembrano imparare in seguito al movimento di protesta contro la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Ed è la Gran Bretagna che sempre di più si trova nel loro mirino, sospettata di aver ripreso, come in passato, il suo ruolo di perturbatore in Iran, e di essere dietro le violenze scoppiate nelle strade di Teheran.
Il primo ad avere suonato l'allarme contro Londra è stato il numero uno, la Guida suprema Sayed Ali Khamenei: "I diplomatici di diversi paesi occidentali, che finora ci hanno parlato con il linguaggio diplomatico hanno dimostrato il loro vero volto, in primo luogo il governo britannico", ha proclamato nel suo discorso di venerdì sulle elezioni presidenziali iraniane, mentre la folla ha gridato "Abbasso la Gran Bretagna".
Questa domenica, anche il presidente eletto, Mahmoud Ahmadinejad ha fatto riferimento all’ingerenza inglese e statunitense: "Non entrerete nella cerchia di amici della nazione iraniana tenendo proponimenti frettolosi. Per questo motivo, vi chiedo interrompere la vostra ingerenza." ha scritto sul suo sito web.
In precedenza, il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, era andato ben oltre, accusando Londra di aver cospirato contro le elezioni presidenziali. Nel corso di un incontro con i diplomatici, citato dal canale satellitare in lingua inglese "Press TV", aveva osservato che "è da due anni che Londra prepara un siluro contro le elezioni presidenziali iraniane:" Abbiamo notato un afflusso (dalla Gran Bretagna) prima delle elezioni", ha affermato, riferendosi alla presenza di "elementi legati ai servizio segreti britannici".
La Gran Bretagna "voleva che nessuno si recasse al voto", "questa era la linea dei media britannici", ha aggiunto.
Infatti, questi media hanno, fin dalle prime ore, e senza prove, adottato il punto di vista dei perdenti alle presidenziali, contestando l'esattezza delle cifre ufficiali e pubblicandole prematuramente. Da questo momento viene alla luce tutta l'ampiezza dell’ingerenza britannica, che, quindi, non era limitato ai soli mezzi di informazione.
Un ruolo importante è stato assunto nelle recenti dimostrazioni dai membri dell’ “Organizzazione dei Mujahidin del popolo”, vietata in Iran, che sono stati arrestati dai servizi di sicurezza.
Secondo il ministero in questione, essi hanno confessato di essere stati addestrati da soldati britannici di stanza in Iraq.
Nel corso degli ultimi due anni, diverse reti terroristiche, con l'obiettivo di creare disordini in Iran, erano state smantellate in molte province iraniane, nella provincia araba di Al-Ahwaz, e in quella turcomanna del Balochistan.
Essi hanno inoltre confessato di aver legami con il Regno Unito.
L'avversione di Londra contro Teheran non è un segreto per nessuno, a causa della vittoria della rivoluzione di Imam Khomeini, il quale è riuscito a detronizzare uno degli alleati pro-occidentali più vicini a Londra (ed anche a Washington).
Data la storia di interferenza e cospirazioni pianificate da parte dei vari governi di sua maestà "in questa regione come altrove nel mondo, le accuse iraniane contro l'ex Impero del Sol Levante, sono più plausibili che i dinieghi del segretario degli Esteri britannico, David Miliband, per il quale "il Regno Unito è irremovibile sul fatto che sia il popolo iraniano a scegliere il proprio governo e le autorità iraniane a garantire l'imparzialità dei risultati (elezioni presidenziali) e proteggere i loro concittadini."
Nel 1953, è stato il Regno Unito che ha indotto gli Stati Uniti arovesciare il governo popolare di Mossadegh. Aveva deciso di nazionalizzare il settore petrolifero iraniano. Ahmadineajd è stato molto più audace.
Iran, l’eversione via sms
di Ugo Gaudenzi - Rinascita - 22 Giugno 2009
“Che cosa hanno in comune Michael Ledeen (il neo-con Usa, antenna anti-Craxi a Sigonella), Mir-Hossein Mussavi (il candidato specchio della mafia dell’ex presidente Rafsanjani sconfitto alle elezioni del 24 giugno in Iran) e Adnan Khashoggi (il plutocrate saudita)?”.
Se lo chiede Reza Fiyuzat, analista e docente iraniano, e così risponde: “Sono tutti buoni amici di Manuchehr Ghorbanifar, un presunto agente doppio del Mossad, mercante d’armi nonché figura chiave dell’affaire Irangate”, ovvero gli scandalosi accordi per la vendita di armi Usa a Teheran i cui proventi furono utilizzati dall’amministrazione Reagan per finanziare la controguerriglia dei Contras contro il legittimo governo sandinista nicaraguegno nel biennio 1985-86 (ndd).
Di qui una logica addizione: dietro Mussavi, il cosiddetto “riformista”, protagonista delle manifestazioni “verdi” a Teheran, radicalmente sconfitto dal riconfermato presidente Mahmud Ahmadinejad, “forse” c’è la mano del Mossad, di certo quella della Cia e quella del denaro collaborazionista saudita.
Fatto sta che in Iran il 61,6% dei consensi è stato raccolto da Ahmadinejad e il 35,9 da Mussavi: con uno scarto di oltre 10 milioni di voti. L’operazione segreta atlantica è così fallita.
Washington è adusa a intervenire, in Iran. Come notano i commentatori liberi di mezzo mondo, da Robert Fisk a Thierry Meyssan di “Reseau Voltaire,” o noi di “Rinascita”, lo aveva fatto alla fine della seconda guerra mondiale, lo aveva ripetuto nel 1953 per rovesciare il premier nazionalista Mohamar Mossadeq, colpevole di aver nazionalizzato le risorse petrolifere, aveva armato Saddam contro l’Iran, e anche ora, con il tentativo fallito di “rivoluzione colorata”.
Questa volta l’Iran è diventato il campo di sperimentazione di metodi innovativi di sovversione. La Cia si è appoggiata nel 2009 su una nuova arma: il controllo dei telefoni portatili e di internet. Dalla “globalizzazione” dei cellulari e delle reti in poi, i servizi segreti anglosassoni hanno moltiplicato le loro possibilità di interferenza e influenza. Da “Echelon” a Skype si può captare tutto, diffondere e deviare tutto. La National Security Agency (NSA) - la stessa Autorità manovratrice dell’Iran-Contras - ha ottenuto dai fornitori “privati” delle reti di connessione la massima collaborazione.
Ed hanno compiuto, nel caso della campagna per le presidenziali in Iran, una capillare opera di identificazione dei possibili “focolai di resistenza o di dissidio” contro il governo legittimo di Teheran o, al contrario, dei gruppi o delle persone filogovernative.
Hanno così ottenuto una “mappa” su cui manovrare la destabilizzazione, senza oscurare nulla.
Come il Mossad. Che si è guardato bene di ordinare il bombardamento o l’oscuramento delle reti di comunicazione durante l’atroce operazione “Piombo fuso” a Gaza, a cavallo degli inizi di quest’anno.
Attraverso gli sms e le messaggerie così monitorate, i signori del pianeta hanno potuto lanciare decine, centinaia di migliaia di inviti “robotici” alla “resistenza” pro-occidentale. Come il Mossad ha insegnato nel luglio e nell’ottobre del 2008 lanciando messaggi robotici alla popolazione libanese e siriana contro gli Hizbollah e il Baa’th.
Lo stesso metodo impiegato a Teheran per drogare la popolazione. Già ad appena due ore dalla fine delle votazioni una sventagliata di sms eteroinviati avevano “informato” destinatari iraniani selezionati che le Guardie della Costituzione avevano reso nota a Mussavi la sua vittoria e l’uomo di Rafsanjani - lo stesso che tre giorni prima aveva dichiarato “scontata la vittoria di Ahmadinejad”, anche sulla scorta di indicazioni statistiche Usa che alla vigilia conteggiavano in “almeno il 20%” lo svantaggio a favore del presidente uscente - ha così potuto chiamare a raccolta la sua rivoluzione colorata. più tardi un’altra sventagliata di sms informava gli “iraniani selezionati” (indirizzo: twitter@stopAhmadi) sulla necessità di seguire Facebook o i lanci Twitter sulle proteste della dissidenza.
“Sfortunatamente” per i manovratori, la società Twitter però ha fermato nella notte le sue linee di comunicazioni per la “normale manutenzione dei suoi server”.
Subito il Dipartimento di Stato Usa allertava la Twitter per sospendere tale manutenzione. Ne ha dato notizia il New York Times, commentando come tali “operazioni hanno contribuito a seminare la sfida del dissenso” e come fosse impossibile, con questa tattica individuare messaggi veri e messaggi lanciati da Langley (sede Cia).
“Destabilizzare, destabilizzare, destabilizzare. Qualcosa rimarrà.” Questo è quanto accaduto a Teheran e dintorni.
Per adesso il piano atlantico, però, è miseramente fallito. Ma lo scacchiere medio-orientale resta la prima linea dell’attacco atlantico all’Europa.