mercoledì 17 giugno 2009

In Italia la crisi economica si nasconde...

In Italia, nei media mainstrem, ormai non si parla più di crisi economica nè tantomeno di come affrontarla. Dal governo poi il silenzio è assordante.
Berlusconi ha infatti archiviato la questione dicendo che è solo una questione psicologica e che con una buona dose di ottimismo si sistema tutto.

Ieri però il governatore di Bankitalia e presidente del Financial stability board, Mario Draghi, in un discorso a Berlino ha affermato che bisogna cominciare a pensare a strategie d’uscita dalla crisi economica globale, anche se non sono ancora maturi i tempi per attuarle. Sottintendendo quindi che siamo tuttora nel pieno della crisi.

D'altronde già nel comunicato finale del G8 dei Ministri finanziari, tenutosi a Lecce solo pochi giorni fa, si dice chiaramente che "la situazione è incerta". Ed è inoltre emerso che sulle "strategie di uscita" non c'è alcun accordo, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che sembrano ancora orientati a sollecitare gli altri partner a mantenere politiche monetarie e di bilancio espansive, mentre alcuni Paesi europei sono più scettici su questo punto. Così come rimane ferma al palo l'idea di Tremonti sulla riscrittura di regole internazionali più stringenti e comuni, il cosiddetto "Global standard".

Parole chiare sono invece arrivate da segretario al Tesoro USA, Timothy Geithner, che ha detto "Non credo siamo già giunti a un punto nel quale possiamo parlare di una ripresa in atto. E' troppo presto per cambiare rotta e contenere le politiche". Quindi per Geithner le misure di stimolo adottate dai governi dovranno proseguire.

Nel frattempo sono sopraggiunti altri dati negativi per l'economia italiana. Secondo l'Istat le retribuzioni sono cresciute nel primo trimestre 2009 dello 0,1% sul trimestre precedente e dello 0,6% sul primo trimestre 2008, il dato più basso dal 2000.
Di contro, l'inflazione a maggio ha segnato un +0,9% su base annua, l'incremento più basso dal 1968, ma è sempre superiore dello 0,3% rispetto all'aumento delle retribuzioni.
E per l'OCSE nel 2010 il deficit italiano raggiungerà il 6% del Pil, mentre il debito pubblico supererà il 115% e continuerà a crescere.
Ma per Berlusconi l'economia italiana ripartirà alla grande...con l'ottimismo.

Ieri poi si sono riuniti a Ekaterinburg in Russia i capi di stato di Brasile, Russia, India e Cina per il loro primo summit (il Vertice Bric) e hanno chiesto esplicitamente un sistema monetario internazionale "più diversificato" e meno ancorato al dollaro.
Nel comunicato finale del vertice si legge "Noi pensiamo che sia veramente necessario avere un sistema stabile di valute, affidabile e maggiormente diversificato [...] Una nuova architettura del sistema finanziario ed economico dovrebbe essere basata su una capacità decisionale e su processi di realizzazione presso le istituzioni finanziarie internazionali", sottolineando l'impegno dei Paesi Bric a portare avanti "la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali per riflettere i cambiamenti nell'economia mondiale".

Ma il presidente russo Dmitri Medvedev ha rincarato la dose "Dobbiamo rafforzare il sistema monetario internazionale. Non solo la posizione del dollaro, ma anche la creazione di nuove valute di riserva, e forse, in ultima analisi, la creazione di divise sovra-nazionali, nuovi mezzi di pagamento e metodi di calcolo. L'economia non può funzionare, se gli strumenti finanziari sono denominati in una unica valuta. Una simile situazione è osservabile attualmente".
L'immediata conseguenza sui mercati dopo questi commenti è stato un calo del dollaro sull'euro.

In conclusione, siamo nel pieno di una crisi che non ha ancora mostrato tutta la sua portata nè le sue reali conseguenze a lungo termine. E non c'è alcun accordo tra i potenti della Terra sul come venirne a capo.

Tranne Silvio, d'accordo con se stesso e la sua concreta ricetta in tasca: il ridicolo ottimismo.


La terza ondata di crisi è più vicina, lo dice anche la Bce
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 17 Giugno 2009

Ottocentocinquantamila dollari. È questa la cifra pagata da un grande investitore, ovviamente anonimo, che ha comprato 20mila opzioni call luglio del Vix, l'indice che determina la volatilità dei mercati, scommettendo che questo salirà e raggiungerà in meno di un mese quota 45,42 dall'attuale quota 30.

Insomma, si scommette sul crollo dei mercati a breve. Luglio appunto, la terza ondata che ilsussidiario.net aveva preventivato e annunciato oltre un mese fa. Il Vix non tocca quella quota dal 21 aprile, data in cui molti esperti erano certi si stesse chiudendo il periodo d'emergenza e la ripresa fosse dietro l'angolo. La scommessa dell'intrepido trader è stata fatta giovedì scorso, segnale che o la sera del mercoledì aveva bevuto troppo oppure è certo che qualcosa sta per accadere in tempi molto ristretti: 850mila dollari non sono tutti i soldi del mondo ma anche buttarli via in una scommessa persa in partenza non è divertente. Non a caso, poi, lunedì i mercati sono crollati sotto il peso del rafforzamento del dollaro e del rallentamento dell'attività manifatturiera Usa in giugno.

Purtroppo, come annunciato l'altro giorno dal redivivo Trichet, «il peggio potrebbe essere davanti a noi e non alle nostre spalle». D'altronde, mister ottimismo a oltranza non aveva particolari possibilità di evitare il duro scontro con la realtà, visto che parlava a margine della presentazione del Financial Stability Report della Bce e che questo diceva chiaro e tondo che «entro la fine dell'anno la Banca Centrale europea si attende svalutazioni per 283 miliardi di dollari da parte delle banche continentali».

Insomma, il bagno di sangue prosegue in attesa che gli stress test promessi da Basilea per il mese di settembre ci dicano la verità sullo stato di salute degli istituti di credito. «I politici e i soggetti che partecipano alle attività di mercato dovranno essere particolarmente attenti nel prossimo periodo, visto che il ciclo del credito non ha affatto raggiunto un punto di svolta», metteva in guardia il report. Che proseguiva: «Il deterioramento delle condizioni macro-finanziarie sta continuando a testare il potenziale di assorbimento dello shock nell'area finanziaria dell'euro. E, partendo da questo presupposto, occorre ammettere che le prospettive per un cambio di direzione non sono affatto promettenti».

E, in effetti, nel silenzio generale lunedì Moody's ha deciso il downgrade di 25 banche spagnole per rischi di default rispetto alle riserve: altro che Core Tier 1, siamo alla bancarotta generalizzata. Questo il giudizio di Moody's che ha accompagnato la decisione: «Le garanzie ulteriori che le banche Ue negli anni hanno creato al fine di evitare tale rischio sono diventate con il tempo sempre più labili e sottili. Se non ci saranno interventi di parti terze - proprietari o più probabilmente governi - alcune banche andranno in default a causa dell'incapacità di coprire le negatività contenute nei propri assets rispetto alle riserve». E, inutile dirlo, l'atteggiamento completamente irresponsabile delle banche Ue ha giocato un ruolo fondamentale nella creazione di questi presupposti devastanti.

Per Hans Redeker, capo del dipartimento currency di Bnp Paribas, gli istituti europei hanno perso colpevolmente l'occasione di aumentare le loro riserve di capitale durante il mercato rialzista di marzo, quello che ha fatto la fortuna di molti e che invece ora vede i fondi speculativi lanciarsi nelle prese di beneficio sulle commodities per garantirsi un po' di cash (la caduta del petrolio di 2 dollari al barile lunedì parla questa lingua): «Le banche statunitensi hanno racimolato 85 miliardi di dollari di capitale fresco dagli stress test in poi, quelle europee solo 7,5. Oltre ad essere un risultato disarmante, questo può influire negativamente anche sull'atteggiamento degli investitori che rischiano di perdere completamente la fiducia nel management degli istituti europei».

Tornando al report della Bce, le prospettive sono quelle di perdite per 649 miliardi di dollari entro la fine del 2010. «C'è il rischio di una spirale ribassista, dovuta anche ai rischi che giungono dal sistema bancario dell'Est Europa. Il rischio è che la regolamentazione di alcune nazioni garantisca alle banche la possibilità di “under-reporting”, una manipolazione al ribasso delle reali entità di perdita. Quindi, dobbiamo ammettere che esiste il rischio di un possibile errore di valutazione, al rialzo, anche delle nostre stime». Come dire, la Bce sa benissimo che le banche europee mentono sui conti e mette le mani avanti.

Siamo davvero messi bene, conviene allacciare le cinture di sicurezza. Soprattutto quando in apertura del vertice Bric - Brasile, India, Cina e Russia - il presidente russo auspica una nuova valuta per le riserve mondiali, ovvero l'abbandono del dollaro e la creazione di un nuovo equilibrio: quasi certamente creata sull'indicizzazione delle commodities, chiave del potere per i paesi emergenti. Occhi aperti.


Brevi appunti di un non economista sulla crisi
di Giulietto Chiesa -
Galatea European Magazine - 9 Giugno 2009

Primo appunto. Andiamoci piano con i paralleli storici. È diventato di moda confrontare la presente crisi finanziaria mondiale con quella della fine degli anni '20 negli Stati Uniti.
In altri termini: i mal di testa di Barak Hussein Obama e di Franklin Delano Roosevelt hanno qualcosa in comune? Cioè la Grande Crisi del 1929 ha qualcosa a che fare con la Gigantesca Crisi degli anni 2007-2009 (e, molto probabilmente, successivi)?

Vedo astronomiche differenze. La più evidente delle quali è che Roosevelt inaugurò di fatto l'Impero Americano sul mondo intero, mentre Obama ne sta registrando la fine. Grande presidente il primo, probabilmente grande presidente anche quest'ultimo. Ma le differenze sono enormi. FDR prese in mano le redini di un paese che era creditore complessivo verso il resto del mondo. Non c'era, in giro per il pianeta, qualcuno che non gli fosse debitore. Obama ha ereditato il comando del paese più indebitato del pianeta; un paese che non solo ha debiti da tutte le parti, ma che non è più in grado di pagarli.

Secondo appunto. Confrontiamo le classifiche dei primi venti giganti mondiali per capitalizzazione di mercato: quella del 1999 e quella del 2009. Queste cifre ci aiuteranno a capire meglio cosa significa quando un impero finisce, come lo si può addirittura quantificare. Nel 1999 l'elenco era capeggiato da Citigroup (151 mlrd $) e includeva ben 11 protagonisti del mercato finanziario anglosassone: americani (sette) e britannici (quattro). Era il quadro rappresentante plasticamente il trionfo della deregulation reagano-thatcheriana, del neoliberismo senza confini e senza alternative. Per trovare un ciclope europeo (non britannico) bisognava arrivare all'ottava posizione, dove si trovava l'UBS, la mitica Svizzera bancaria. Il primo giapponese si trova al nono posto (Bank of Tokyo-Mitsubishi). La lanterna di Diogene riusciva a trovare un altro ciclope europeo (oltre ai britannici HSBC, Lloyds TSB, Barklays, National Westminster Bank) solo all'altezza del 18-esimo posto, con lo spagnolo Banco di Santander. In sintesi America più Europa, e poco di più. Il resto del mondo contava poco o niente.

Prendiamo adesso l'elenco del 2009. Tutto è cambiato. Ai primi tre posti di quella stessa classifica ci sono oggi tre banche cinesi (Industrial & Commercial Bank of China; China Construction Bank; Bank of China). La prima banca USA è soltanto al quinto posto (JP Morgan Chase) e solo altre due navigano all'8-vo e 9-no posto (Goldman Sachs e Wells Fargo). Il magro elenco americano termina qui. La Gran Bretagna fa peggio, conservando solo un posto, il quinto, con HSBC. Nel mondo anglosassone chi fa meglio sono, non a caso, due banche canadesi. Il Canada, infatti, assai meno della Gran Bretagna di Tony Blair e di Gordon Brown, si è fatto trascinare dall'euforia borsistica di Wall Street. E per questa ragione ha resistito. Ma ecco apparire in graduatoria ben due banche brasiliane, mentre l'Europa meridionale si prende la sua rivincita, conservando il posto del Santander e consegnando il 19-esimo posto della graduatoria, per la prima volta, a una banca italiana, l'Intesa San Paolo. La Svizzera si accontenta della maglia nera con il Credit Suisse. UBS è sparita dal novero dei grandissimi.

Ma questa classifica ci fornisce molta più informazione di quella contenuta in queste cifre, che già mostrano un impressionante spostamento del baricentro finanziario mondiale verso l'Asia e aree del pianeta che solo dieci anni fa erano considerate (ed erano) marginali.
Per esempio, se facciamo la somma delle capitalizzazioni di mercato complessive delle quattro banche cinesi, si vede immediatamente che essa è largamente maggiore di quella di tutte le altre 16. Se non si può ancora dire che la Cina e il suo mercato sono diventati dominanti, su scala mondiale, possiamo già però dire che senza di loro non si può più decidere niente.

Se guardiamo ancora meglio vediamo che la capitalizzazione di mercato delle tre banche USA (alle due già menzionate si aggiunge la JP Morgan Chase), con i suoi circa 130 miliardi $, è surclassata dalla banca cinese prima in classifica (145 miliardi $). Il centro della finanza mondiale è ormai in Asia. Più precisamente, appunto, in Cina. Gli USA non hanno più il monopolio decisionale. Il consenso futuro, se ce ne sarà uno, com'è da augurarsi, non sarà più washingtoniano. Il Fondo Monetario Internazionale è ormai un'anticaglia. La sola Industrial & Commercial Bank of China, di cui, appena dieci anni fa, nessuno conosceva l'esistenza , dispone di un portafoglio superiore a quello del FMI.

Terzo appunto, molto breve. Può, in queste condizioni, il dollaro essere ancora la moneta mondiale di riferimento, da solo? Ovviamente no. Wen Jabao lo ha detto pubblicamente a più riprese. In termini diplomatici, ma non avrebbe potuto fare diversamente, si è chiesto se gli Stati Uniti siano ancora in grado di onorare i loro impegni con un dollaro in queste condizioni. A livello dei vertici mondiali si sta facendo un grande sforzo per evitare che il panico dilaghi. Ma la questione è sul tappeto, anche perché gli Stati Uniti hanno una sola opzione immediata da sfruttare (la stessa che Gordon Brown ha già usato svalutando la sterlina): far scendere il dollaro.

Ottenendo così un rilancio delle loro esportazioni e una consistente riduzione del loro debito estero. Questo lo potranno fare, nei prossimi mesi, fino a che Pechino sopporterà di vedersi asciugare il gigantesco malloppo del debito americano che ha comprato in questi anni per garantirsi le esportazioni negli Stati Uniti.

Ma Washington sa che c'è un limite, oltre il quale la Cina non può andare. Superato quel limite i dirigenti cinesi possono decidere di abbandonare il dollaro al suo destino. Lo stanno già facendo, comprando in dollari tutti gli asset che incontrano sul loro cammino: un modo come un altro per liberarsi di una moneta che non sarà più comunque l'unica di riferimento mondiale.

Quarto appunto. Fino ad ora ciò che i vertici del potere mondiale hanno saputo o potuto fare è stato di immettere altra liquidità, a dosi massicce, nel sistema finanziario paralizzato dalla insolvenza. L'hanno fatto perché non avevano ricette alternative e temevano una prolungata depressione, accompagnata da decine di milioni di posti di lavoro perduti. Cosa che sta avvenendo comunque, sebbene in termini frenati.

Così facendo i sono comportati come pompieri che gettano benzina sul fuoco. La vampata arriverà con qualche ritardo, ma arriverà comunque. Il problema però è un altro: l'ordine di grandezza degl'interventi delle banche centrali (USA, Cina, Europa, Giappone) a sostegno del sistema bancario internazionale è, buon peso, di una ventina di trilioni di dollari (ventimila miliardi). Sebbene si sia trattato di una serie di decisioni senza precedenti, per dimensioni e significato, il fatto è che la quantità di derivati immessi nel mercato finanziario mondiale negli ultimi vent'anni (equivalente a una dilatazione abnorme e mostruosa della massa monetaria) è di un ordine di grandezza superiore.

Quanto sia esattamente questa massa di denaro, creata privatamente dai ciclopi impazziti della finanza mondiale (quelli dell'elenco di cui sopra e molti altri) non lo sa invero nessuno, ma le valutazioni più realistiche (quelle di coloro che non hanno creduto alle fandonie che venivano loro raccontate dalle centrali produttrici del disastro) dicono che si aggira attorno ai 700 trilioni (settecentomila miliardi di $). Probabilmente è molto di più. Significa che masse enormi di denaro, equivalenti a dieci, quindi volte il Prodotto Interno Lordo Mondiale (il PIL mondiale è all'incirca 55 trilioni di dollari) sono gestite da enti, gruppi di individui, che non solo sono totalmente fuori controllo da parte di chicchessia, ma che sono anche totalmente irresponsabili, come la stessa esplosione della crisi ha dimostrato ampiamente.

Dovrebbe essere ovvio (ma non lo è, visto i comportamenti attuali della politica mondiale) che il primo passo da fare sarebbe quello di istituire forme di controllo. Invece si sta facendo una cosa senza senso e senza futuro: si tenta di risanare la situazione con altra liquidità, cioè salvando i protagonisti del disastro e ponendo le basi per una drammatica pressione sulla gente in termini di aumento del carico fiscale e di riduzione dei sistemi di difesa sociale, ovunque essi esistono.
Operazione che non può avvenire in forme indolori e che è comunque una goccia nel mare. Senza decidere cosa fare di questo smisurato e selvaggio Gulliver di “bite” finanziari alla ricerca del massimo profitto immediato, che continua a muoversi attraverso tutti i mercati, non si vede come impedire un tracollo di gran lunga peggiore.

Quinto appunto, e ultimo. Si legge da ogni parte che la crisi sta per finire. Ancora pochi mesi e poi si ricomincia daccapo. Due stupidaggini sesquipedali.

La prima è che la probabilità che questa crisi si risolva in pochi mesi, massimo uno o due anni, è uguale a zero. E, del resto, chi la formula sono gli stessi che hanno creato la crisi. E dunque di loro non c'è da fidarsi.

La seconda è che ricominciare daccapo, come prima, sarà comunque impossibile. Perché sono apparsi i limiti allo sviluppo (energetico, ambientale, dell'acqua, del clima,etc). È l'avverarsi delle previsioni del Club di Roma, che furono irrise spietatamente da coloro che adesso non sanno cosa fare. Non era mai accaduto prima. Adesso è chiaro - o dovrebbe esserlo - che uno sviluppo indefinito in un sistema finito di risorse è una contraddizione in termini.


Storia di due mondi economici divergenti
di F. William Engdahl - Global Research - 10 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FN

Nel mondo della globalizzazione sta emergendo progressivamente un punto di divisione che assumerà un significato profondo nelle nazioni del G7, nella loro economia e stabilità politica. Tale punto di divisione trova luogo tra le nazioni che sono ancora inserite nel sistema del dollaro, inclusa l’Eurozona, e le economie emergenti – in particolare il BRIC, ovvero Brasile, Russia, India, Cina –, dove nuovi mercati economici e regioni stanno rimpiazzando rapidamente la loro eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti come mercato primario di esportazione e fonte per il finanziamento degli investimenti. La conseguenza di lungo termine sarà l’aggravarsi della tendenza degli Stati Uniti ad essere oramai una superpotenza politica ed economica in declino, mentre sorgeranno nuove e dinamiche zone economiche, seppur inizialmente con importanza regionale.

Il primo grande asset differenziale che nazioni come Cina, Indonesia, India e Brasile posseggono è uno dei piú significativi deficit o difetti del vecchio mondo industrializzato, quindi di Stati Uniti, Regno Unito, Germania ed Europa in generale: il vantaggio demografico.

Ad eccezione della Russia, tutte le economie in crescita hanno una popolazione giovane e dinamica crescente. È interessante ricordare che la storia nascosta del “miracolo economico” tedesco pre 1914 era basata su un “segreto” simile – popolazione giovane e dinamica in rapida crescita, mentre quella di Gran Bretagna e Francia, dopo la Grande Depressione Inglese del 1873, era stagnante o in declino, con conseguente emigrazione di massa negli Stati Uniti.

Non è accidentale che le principali élite politiche del G7 sostengano che la maggiore minaccia a livello mondiale sia l’alto tasso tasso di natalità negli stati in rapido sviluppo. Non eufemizzando, intendono realmente che la maggiore minaccia al loro continuo dominio sugli affari del pianeta sia l’espansione della popolazione nelle economie emergenti, con conseguente crescita di nuovi rivali.

Nuove regioni in crescita si affermano

Quasi con naturalezza negli ultimi 18 mesi, una volta che l’iniziale shock della peggiore crisi finanziaria ed economica dagli anni 30 ha iniziato ad attutirsi, la Cina ed i suoi partner commerciali piú prossimi insieme con le altre economie ad alto tasso di crescita hanno iniziato a cercare alternative al sistema morente del dollaro.

La presente crisi non è un epifenomeno destinato ad esaurirsi in breve tempo, come Ben Bernanke, il Segretario al Tesoro Tim Geithner e Barack Obama desiderano farci credere. È il riflesso di piú di 65 anni di una politica economica lacunosa da parte degli Stati Uniti, che ha assunto proporzioni epidemiche dopo la decisone di abbandonare il Gold Standard nel 1971. Per essere chiari, il Gold Standard alla pari dei suoi predecessori non era una magica panacea per l’economia. Ma lo strappo di Nixon nell’Agosto 1971 ha di fatto permesso a Washington di imbarcarsi in una politica finanziaria imperialistica che nella sue devastazioni degli ultimi 8 anni ha rovinato gran parte dell’economia mondiale.

Ad oggi il contrasto tra il declino del G7 e le economie emergenti con alto tasso di crescita della popolazione non potrebbe essere piú chiaro. Le nazioni del G7, dagli Stati Uniti alla Germania, cosí come l’Italia, stanno soffocando nel debito pubblico: 80% del PIL negli Stati Uniti, ben oltre il 100% in Italia, un instabile 199% in Giappone. Solo lo Zimbabwe con il 218% li supera. La percentuale tedesca è del 77%.

In contrasto, tra i paesi ad alto tasso di crescita solamente l’India ha un debito pubblico significativo, lascito dell’era coloniale britannica, attestato al 58% del PIL. Il Brasile, nonostante una grave crisi del debito negli anni '80, ha oggi un indebitamento pubblico molto gestibile del 45%, mentre l’Indonesia, una delle economie a maggior tasso di crescita, del 34%. La Corea del Sud, grazie anche ad una radicata cultura del risparmio, ha un misero tasso d’indebitamento del 28% del PIL, la Cina del 18%. La Russia, che ha utilizzato i recenti proventi dell’esplosione del prezzo di gas e petrolio per ripianare i suoi debiti verso l’estero e nei confronti del FMI, ma che soffre al contempo una forte crisi demografica, ha nei dati del 2008 un debito pubblico del 6% del PIL. Nel frattempo, dopo la crisi dell’anno passato ha anche rinvigorito le proprie riserve in valuta estera portandole ad un livello di 404 miliardi di dollari nell’ultimo mese, occupando in questi termini la terza posizione a livello mondiale.

Quindi, mentre le economie di Stati Uniti ed Unione Europea sono strette nella morsa a forbice di due crisi gemelle, ovvero aumento del debito pubblico e decrescita del tasso di espansione demografica, all’opposto le economie emergenti di Asia ed Eurasia, cosí come il Brasile in Sud America, stanno esplodendo esattamente perché possono godersi i benefici di un basso indebitamento sul PIL combinato ad un alto tasso di crescita della popolazione.

In Cina, India, Indonesia e Brasile la crescita economica continua imperterrita. I governi non sono seppelliti da una montagna di debiti ed i cittadini possono continuare ad essere ottimisti sul proprio futuro. Questa divergenza, tra quelli che erano una volta ricchi e quelli che erano una volta poveri, sarà marcata come il fulcro di un cambiamento geopolitico nella storia del mondo quando sarà rivisitata dai futuri storici dell’economia.

Presi nella morsa di due crisi gemelle

L’aspetto piú rimarcabile della crisi è l’accurato screditamento della stessa da parte degli economisti occidentali, incluso ogni singolo vincitore del Nobel per l’economia. Le loro grandiose teorie a giustificazione del modello di globalizzazione imperniato sul “lassez faire” e sul “libero mercato” sono provatamente sbagliate, rivelandosi in effetti come un semplice stratagemma promozionale a supporto di una globalizzazione unilaterale. Si sono esposti ed ora, per usare un termine caro al narratore preferito della mia infanzia, il danese H.C. Andersen, il Re è nudo.

Il sitema del dollaro sul quale il loro mondo era strutturato da Bretton Woods, 1944, vive una incontrovertibile agonia. Ogni misura ad oggi proposta dalle due amministrazioni statunitensi - Bush ed adesso Obama - allo stesso modo di quelle del G7 si sono risolte nel dare dosi sempre piú pesanti di chemioterapia finanziaria ad un malato terminale. I sempre piú consistenti salvataggi a spese dei contribuenti per mantenere artificialmente in vita un sistema finanziario e bancario fallito stanno ancor piú peggiorando la salute dell’economia statunitense.

Gli aiuti record statunitensi promossi dal Settembre 2008, quindi in un periodo di soli 10 mesi, hanno portato il debito federale da un ammontare del 60% del PIL ad un enorme 80%. Il debito privato dei possessori di casa è adesso superiore al 100% del PIL, significativamente peggiore dell’anno di recessione 1974, quando si attestava ad un mero 40%.

Ancora piú allarmante, a discapito di ogni prospettiva di uscita dalla flessione economica statunitense, il tanto atteso fenomeno demografico ha lentamente iniziato ad avere effetto. Nei prossimi 1-3 anni l’impatto del numero record di pensionati della “Baby Boom Generation” colpirà. Saranno costretti, per vivere in pensione, a racimolare denaro dalla Previdenza Sociale ed al contempo vendere i propri 401k o similari investimenti in azioni e bond. In termini economici ciò significherà un ulteriore drenaggio senza controparte delle finanze pubbliche statunitensi in quanto la crescente disoccupazione tra i lavoratori giovani, le tasse dei quali sono necessarie per sostenere la Previdenza Sociale, aggraverà il debito pubblico nei prossimi anni portandolo ai livelli dell’Italia, o addirittura di Giappone e Zimbabwe. I disoccupati non pagano tasse. Attingono bensí dalle risorse pubbliche.

In Aprile, la vendita di auto in India è stata del 4,2% superiore di quella dell’anno precedente. Le vendite al dettaglio in Cina sono aumentate del 15% nel primo trimestre del 2009. La Cina crescerà intorno al 7-8% quest’anno, l’India al 6% e l’Indonesia al 4%.

Al contrario, utilizzando dati ufficiali largamente arrotondati per difetto, l’economia statunitense si è contratta nell’ultimo trimestre ad un tasso del 6,1% su base annua, quella europea ad un tasso del 9,6%, quella giapponese ad uno spaventoso tasso del 15%, qualcosa che somiglia molto al periodo del 1930.

In occidente, includendo il Giappone membro del G7, le banche sono overleveraged [hanno cioè un eccessivo rapporto di indebitamento. N.d.r.] e di conseguenza disfunzionali, i governi paralizzati dal debito, mentre i consumatori privati stanno a loro volta cercando di ridurre i loro pesanti carichi debitori. Gli Stati Uniti stanno avendo difficoltà a vendere il proprio debito a prezzi appetibili. Le ultime tre aste di buoni del tesoro sono andate male. Lo stato più importante, la California, si sta vvicinando ad un collasso fiscale totale. Il budget per il deficit fiscale annuale statunitense è destinato a sorpassare la quota del 13% del PIL, livello visto per l’ultima volta durante la Seconda Guerra Mondiale.

In contrasto a tutto ciò le banche dei paesi emergenti sono in gran parte sane e profittevoli. Ogni banca indiana, governativa e privata, ha dichiarato profitti nell’ultimo trimestre del 2008. I governi sfoggiano una buona forma dal punto di vista fiscale. La Cina ha le più consistenti riserve in valuta estera, 2 trilioni di dollari, ed un budget deficit di meno del 3% del PIL. Il Brasile dichiara adesso un attivo nella bilancia dei pagamenti. L’Indonesia ha ridotto il proprio debito da quota 100% del PIL ad un odierno 34%.

Diversamente dall’occidente, dove i governi sono senza soldi e senza nuove idee e stanno pregando affinché la cura funzioni, questi stati dispongono di opzioni di scelta. Solo un anno fa, preoccupazione dei loro leader erano un’economia surriscaldata e l’inflazione. Il Brasile ha tagliato sostanzialmente il proprio tasso d’interesse portandolo al 10,25%, il che significa che se le cose peggiorano può scendere ulteriormente.

Lo stato d’animo in molti di questi paesi rimane fortemente ottimista. Le loro valute si apprezzano nei confronti del dollaro perché i mercati li vedono fiscalmente più disciplinati e con prospettive di crescita maggiori nel lungo termine rispetto agli Stati Uniti. I loro bond crescono di valore. La combinazione di questi indicatori, tutti allineati nella stessa direzione, non ha precedenti.

Gli Stati Uniti rimangono il più ricco e potente stato del mondo. Il loro potere militare si estende in tutto il mondo. Anche se i suoi leader preferiscono non chiamarlo così è l’impero informale più potente della storia. Ma come gli egemoni che lo hanno preceduto è incappato in un declino irreversibile -- l’Impero Spagnolo nel XVI secolo e l’Impero Britannico nel XX -- le grandi potenze naufragano nel declino una volta oppresse dai debiti ed impantanate in una crescita lenta.


Alta velocità economica per Mosca e Pechino
di Carlo Benedetti - Altrenotizie - 13 Giugno 2009

Una Russia che va all’attacco è quella che si presenta con l’abito della festa é quella del vertice di San Pietroburgo. Si tratta, appunto, di un forum mondiale (il 13mo della serie) che vede presenti alti esponenti della politica e del settore imprenditoriale. Riunione estremamente ampia perché raccoglie ben 8mila personaggi che si pongono come obiettivo - interrogandosi sul futuro - quello di trovare vie d’uscita alla attuale crisi economica globale. E per i russi - impegnati in azioni a largo raggio sul piano economico - l’occasione consiste nel rilanciare i rapporti bilaterali. Di conseguenza il Cremlino getta sulla bilancia di questo vertice il peso delle sue imprese petrolifere e del gas, i progetti di ampio respiro nel campo della raffineria del petrolio, nel campo della petrolchimica, nel campo della liquefazione del petrolio e annuncia finanziamenti per la creazione di moderne tecnologie.

Un Medvedev sempre più sicuro di se e dell’economia del suo paese, annuncia: “Se sapremo equilibrare le spese in questi campi, le spese a scopi sociali, le spese per lo sviluppo di nuove imprese nel nostro Paese, in fin dei conti avremo una nuova struttura dell’economia nazionale”. Ai diplomatici e agli osservatori non resta che notare che queste parole del presidente russo si allineano a quelle di Obama al Cairo nel senso che - parafrasando il contesto del discorso del presidente americano - si dovrebbe essere ad un “nuovo inizio” nelle relazioni di Mosca con gli altri paesi. E c’è, in merito, chi già fa notare che la Russia, parte integrante dell’economia globale, potrà superare le conseguenze dell’attuale crisi globale modificando anche gli importanti meccanismi finanziari.

Ossia, creando – come evidenzia Medvedev - una valuta sopranazionale e precisamente una serie di nuove valute regionali. Il rublo russo potrebbe svolgere, in tal senso, una funzione positiva creando nuove regole del gioco sul mercato mondiale. E questo potrebbe anche significare che per il Cremlino l’attuale crisi economica mondiale sarebbe non solo una sfida drammatica ma anche un’eccezionale possibilità per dare vita, appunto, ad una struttura innovativa dell’economia nazionale. Medvedev lancia quindi la sua sfida e dice: “Siamo tenuti ad avvalerci delle possibilità supplementari derivanti dall’esportazione di materie prime per modificare in modo radicale la struttura dell’economia nazionale”. La visione è comunque globale. Mosca guarda all’Eurasia, alla Cina e all’India che ritiene pilastri del modello d’integrazione eurasiatica e che considera come una sorta di “grande confederazione” con baricentro nel territorio postsovietico; un modello amministrativo che rappresenti la base per una mutualistica cooperazione tra i centri direttivi del continente.

Le cifre della Russia, in tal senso, parlano e sono macigni. Ma anche la Cina non scherza e rilancia. Ad oggi Pechino, grazie ai fondi stanziati dallo Stato, ha realizzato 20mila chilometri di strade rurali, 214mila case popolari, 445 chilometri di autostrade e 100mila metri quadrati di edifici aeroportuali. Tutto questo rivela che nel primo trimestre di questo anno gli investimenti cinesi nelle infrastrutture sono cresciuti del 102%. Nello stesso periodo negli Stati Uniti sono stati distribuiti solo 69 miliardi dei 787 miliardi di dollari previsti dal piano di Washington. Di questo passo, Pechino - che sta già ampiamente sfruttando il suo piano di stimolo da 585 miliardi di dollari - potrebbe inanellare l’ennesimo primato, quello della ripartenza più bruciante, al punto di contendere agli Stati Uniti il ruolo di locomotiva mondiale.

Una situazione questa che assume un carattere epocale. E tutto questo fa scrivere alla stampa russa - sempre attenta a quanto avviene a Pechino - che la Cina va seguita attimo per attimo perché gli “sconvolgimenti economici” che si registrano nella sua economia sono ciclopici e, purtroppo, “incontrollabili”. E mentre va avanti e si rafforza questa competizione tra i due giganti - Russia e Cina - la strategia dell’attenzione obbliga il Wall Street Journal, con la penna dell’amministratore delegato di Caterpillar, Jim Owens, a dire: “Se negli Stati Uniti per aprire un cantiere servono mediamente 9 mesi, in Cina bastano 9 settimane”.

Quanto ai dati statistici risulta che l’economia cinese è cresciuta del 6,1% nel primo quarto dell’anno e le attese sono per un 6,8% nel secondo trimestre. Ma non sono solo rose e fiori. L’obiettivo della banca centrale di una crescita dell’8% resta lontano. Gli investimenti continuano a essere effettuati in gran parte dallo Stato e non dal settore privato. Le esportazioni inoltre sono in calo da sei mesi consecutivi e la Cina dipende ancora dalle sorti dei suoi mercati di sbocco. Ma è pur vero - come ha annunciato Michael Spence, Premio Nobel per l'economia al recente simposio di Trento - che sarà proprio la Cina ad aprire la strada alla ripresa mondiale dimostrando, allo stesso tempo, “di essere la più veloce". Considerazioni di tenore analogo sono venute anche dal Segretario del Tesoro americano Timothy Geithner.

Ma a San Pietroburgo il discorso generale avrà ora motivi di approfondimento e di concretezza. Perchè si sa che Russia e Cina si stanno dirigendo verso una fase di alta velocità economica che dovrebbe consentire di smarcarsi dal dollaro. Ne consegue che quel tacito accordo monetario tra Washington, Mosca e Pechino è ormai superato. E tutto avviene nel momento in cui le economie di Russia e Cina si sono dotate di una strategia a lungo termine volta a sviluppare il sistema bancario nazionale, ad accrescere il mercato interno delle obbligazioni e, in definitiva, a liberalizzare gli scambi monetari.

La Cina, tra l’altro, ambisce a fare di Shangai una delle più importanti borse mondiali entro il 2020 e stima che entro il 2030 la sua economia avrà superato quella degli Stati Uniti. Di fronte a questa situazione - che é in continuo movimento - gli analisti asiatici (troviamo queste considerazioni nelle corrispondenze che arrivano a Mosca da Pechino) ritengono che il modello cinese, il quale prevede il controllo dei capitali e un mercato rigidamente regolato, sia quello più sostenibile. Sono così finiti i giorni in cui il Segretario del Tesoro Paulson poteva andare in Cina e dare lezioni ai cinesi sulla necessità di liberalizzare ulteriormente il mercato.

La Cina cerca ora di acquisire maggiore rappresentanza e maggior potere in seno alle istituzioni finanziarie internazionali, come l’IMF. Inoltre, per favorire la crescita, il governo, consapevole dei rischi derivanti da una forte dipendenza dalle esportazioni, si va sempre più rivolgendo verso il mercato interno. In qualche misura, esiste una convergenza d’interessi - nel lungo termine, quello degli Stati Uniti è di risparmiare di più e consumare di meno - ma se gli USA applicheranno misure protezioniste, i rapporti con Pechino potrebbero peggiorare.

Di qui il pragmatismo di Obama che cerca un’intesa con il presidente Hu Jintao che viene considerato come un moderno modernizzatore e con Wen Jibao, un premier con il quale gli americani non sono ancora riusciti a stabilire forme di dialogo. Intanto Putin e Medvedev, nella sede di San Pietroburgo, cercano di costruire un nuovo livello di potere economico e politico. Che per Mosca e Pechino si chiama “alta velocità”.


Washington, la Cina e la crisi
di Filippo Ghira - www.rinascita.info - 16 Giugno 2009

La crisi finanziaria ed economica scoppiata negli Stati Uniti, alimentata dalla complicità della finanza britannica, e propagatasi poi a tutto il mondo, ha messo a nudo la debolezza della struttura economica a stelle e a strisce condizionata da un enorme debito commerciale e da un altrettanto enorme debito pubblico, ulteriormente aggravato dagli interventi statali del duo Bush ed Obama a favore delle industrie e delle banche che avevano massicciamente speculato.

L’anomalia americana

L’economia statunitense si regge infatti in piedi grazie alla domanda interna e al prestigio di Washington come prima potenza politica e militare mondiale, l’unico Paese in grado, e in tempi rapidi, di spostare le proprie truppe in ogni angolo del globo per imporre i propri interessi o tutelarli quando appaiono minacciati. Dopo il crollo e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si sono infatti trovati ad essere e ad essere percepiti come la sola potenza militare in grado di muoversi autonomamente e di trascinarsi dietro i recalcitranti alleati, italiani in testa.
Questa centralità di Washington ha impedito in particolare il crollo del valore del dollaro che, se se fosse stata un’altra moneta, avrebbe già dovuto risentire pesantemente del doppio peso del debito pubblico e di quello commerciale. Un debito pubblico che ha ormai superato per entità il prodotto interno lordo e questa peculiarità, già grave di per se stessa, assume un significato tutto suo se si pensa che la maggioranza dei titoli di Stato che lo compongono sono stati acquistati dalla Cina per un importo di 1,7 trilioni di dollari. Per la cronaca un trilione è pari a mille miliardi.

Questo farebbe supporre un legame inestinguibile fra Washington e Pechino ma da tempo ormai le cose non stanno più così. La Cina è ben cosciente della debolezza degli Stati Uniti e della loro moneta anche se non può permettersi di mettere sul mercato le proprie riserve valutarie in dollari che finirebbero per trasformarsi in carta straccia. In realtà, se si considera l’abnorme quantità di dollari in circolazione sui mercati, la moneta verde è già carta straccia solo che manca qualcuno o qualcosa che lo decreti ufficialmente. La Cina, nella sua fase di crescita e di espansione economica, ha avuto bisogno di legarsi all’economia Usa soprattutto per trovare un mercato di sbocco ai propri prodotti. Ma ora, soprattutto perché ci troviamo in un periodo di recessione, un meccanismo del genere non può più funzionare. Tre anni fa Pechino aveva abbandonato il cambio fisso tra dollaro e yuan. Poi negli ultimi anni comprando dollari ha mantenuto basso il valore della propria moneta e ha aiutato le proprie esportazioni oltre oceano, ristabilendo di fatto un rapporto di cambi fissi tra le due monete.

Ma la crisi in corso ha cambiato i termini della questione e la Cina, dopo aver registrato una leggera rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, ha deciso di gettare il primo seme per mettere in discussione l’intero sistema e la centralità del dollaro. Così il governatore della Banca centrale e lo stesso primo ministro di Pechino hanno proposto che il dollaro, in conseguenza della propria debolezza, e della propria sopravalutazione, non debba più essere utilizzato come moneta di riferimento negli scambi commerciali internazionali. Insomma la Cina non vuole che il suo sviluppo economico dipenda dalla domanda di beni proveniente dagli Stati Uniti ma intende semmai seguire la strada che ha sempre caratterizzato lo sviluppo economico americano: quella di puntare sulla domanda interna come fattore trainante e diminuire la dipendenza dall’estero e quindi dalle esportazioni.

Più oro per rafforzare lo yuan

All’interno di tale disegno deve essere letta anche l’altra significativa svolta cinese, quella di investire massicciamente sull’accumulo di oro le cui riserve nei forzieri della Banca di Cina negli ultimi anni sono semplicemente raddoppiate. Pechino vuole insomma diventare una potenza economica a tutti gli effetti, con una struttura interna solida che sia dimostrata dall’affermazione dello yuan come moneta globale di riserva, come valuta di riferimento per il sistema monetario mondiale.

E una sua proposta in tal senso è stata già presentata nelle sedi finanziarie internazionali come Fondo monetario e Banca mondiale. Una proposta che coinvolge come moneta di riserva non solo lo yuan ma anche lo yen giapponese e l’euro. Se questo è il traguardo finale sognato, la Cina sa però bene di essere parzialmente bloccata perché corre il rischio di veder svalutare i propri investimenti di miliardi e miliardi di dollari. Da parte sua Washington persegue un’altra strategia grazie alla stesso disegno seguito in passato nei riguardi dell’Europa. Svalutare il dollaro servirebbe sia a rilanciare la propria economia dalla crisi sia a far perdere valore alle riserve cinesi in moneta verde. L’economia cinese non è comunque tutta rose e fiori. Come sempre succede, dopo la prima fase caratterizzata da un boom delle esportazioni reso possibile da un costo del lavoro pari ad un decimo di quello europeo, da agevolazioni fiscali per le imprese estere che avevano deciso di aprirvi nuovi stabilimenti dove delocalizzare la produzione, per la Cina è arrivata inevitabile la tappa successiva. Una fase, quella attuale, caratterizzata dal calo del tasso di crescita e da un impressionante sviluppo tecnologico che ha abbattuto ulteriormente il costo del lavoro per unità di prodotto e ha innescato l’esplosione della disoccupazione non compensata da un qualsivoglia ammortizzatore sociale in grado di sostenere la domanda interna.

Gli Usa si leccano le ferite

Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, nella sua visita di inizio giugno in Cina, ha chiesto a Pechino di continuare a comprare i titoli di Stato americani e di aumentare i consumi interni e quindi la domanda di beni made in Usa. Allo stesso tempo Geithner ha garantito in cambio agevolazioni per le merci cinesi e migliori rapporti economici e politici tra le due super potenze e quindi un maggiore ruolo dei Pechino negli organismi finanziari internazionali. Si tratta in ogni caso di movimenti in divenire che avranno bisogno di diversi anni per concretizzarsi.

Resta la realtà di una economia, quella statunitense, che con la crisi finanziaria dello scorso anno ha messo in evidenza da un lato tutta la propria debolezza strutturale e dall’altro ha sottolineato quello che potrebbe rivelarsi l’elemento determinante del crollo finale. L’indebitamento delle famiglie ha raggiunto livelli allarmanti, molte sono quelle che hanno dovuto dichiarare bancarotta. La politica della Federal Reserve di tassi di interesse bassi non ha spinto solamente le banche ad indebitarsi per poter speculare. Anche le famiglie, convinte che la cuccagna potesse durare in eterno, avevano utilizzato a più non posso le carte di credito, lo strumento di pagamento per eccellenza negli Stati Uniti e sul quale da sempre le banche erano solite largheggiare.

Ma la mazzata decisiva è arrivata dal crollo del mercato dei mutui subprime e con la conseguente nazionalizzazione di fatto dei due colossi del settore, Freddie Mac e Fannie Mae, che hanno trascinato con sé i destini di milioni di famiglie che si erano indebitate per comprare case di legno in cui nessun italiano abiterebbe mai e che sono le vittime predestinate degli uragani che devastano le zone centrali e meridionali degli Stati Uniti. Gli interventi del Tesoro Usa, più che gli aiuti alle famiglie, penalizzate dalla stretta creditizia, con il fine di sostenerne il potere d’acquisto e sostenere la domanda interna e i consumi, hanno però privilegiato le regalie alle banche e alle industrie, un segnale evidente che, al di là di una lettura forzata della figura di Obama come uomo del popolo, con un presidente democratico invece di uno repubblicano ben poco è cambiato alla Casa Bianca e al Congresso dove continuano a farla da padrone l’Alta Finanza e la Grande Industria attraverso le loro lobby.

Ma questo ruolo imperiale degli Stati Uniti, questa struttura economica basata su un indebitamento infinito scaricato sull’estero, e questo sistema di potere che intende perpetuare se stesso in eterno, appaiono sull’orlo di un inevitabile declino. Un tracollo che è già in corso e che è inarrestabile proprio perché non c’è più nessun Paese estero che abbia la forza e l’interesse per impedirlo, semmai solo per ritardarlo. Il declino dell’impero Usa è confermato peraltro da tanti altri piccoli segnali che dovrebbero far suonare il classico campanello d’allarme. Il sistema ideale, politico ed economico americano è in crisi perché, al di là dell’abusato luogo comune sul Paese dove i sogni si realizzano, ha dimostrato tutta la sua debolezza e non viene più percepito come modello.

Ma c’è anche un altro aspetto più pratico e poco considerato. I soldati Usa mandati ad imporre tale modello in giro per il mondo infatti non rappresentano più il popolo americano non essendo altro che dei mercenari e come tali sono percepiti. Un po’ come le legioni romane che, nel periodo del Basso Impero, erano formate da barbari assoldati per combattere altri barbari. Ma quando i cittadini non sono più disposti a rischiare la vita per gli interessi del proprio Paese, o per i suoi “valori”, significa che ci si trova in piena decadenza. E da qui nasce il disegno di scaricare sui Paesi amici sia le proprie debolezze economiche sia una parte del ruolo di gendarme del mondo. Si tratta però di un gioco destinato a durare poco perché gli interessati comprendono bene che i benefici finiscono inevitabilmente per non essere proporzionali ai costi sostenuti.

Così anche i Paesi un tempo “amici”, gli europei, e quelli di più recente acquisizione, la Cina, hanno incominciato a porsi l’interrogativo se i legami con Washington siano ancora convenienti o se invece non siano addirittura espressione di un mondo che è radicalmente cambiato. Da qui il riaccendersi di rapporti “storici” improntati ad una geopolitica più fisiologica come quella tra Europa (in particolare la Germania) e Russia e tra la stessa Russia e la Cina in nome del classico principio “tecnologia in cambio di energia”. Un riaccendersi di legami che Washington teme perché è ben cosciente del rischio di esserne completamente tagliata fuori.