sabato 20 giugno 2009

Crisi economica: Il piano di "riforma" del sistema finanziario scritto da FED e lobby bancaria

Mentre in Italia gli occupati sono diminuiti nel primo trimestre di 204mila unità (-0,9%) rispetto allo stesso periodo del 2008, e il tasso di disoccupazione raggiunge quota 7,9% (+0,8 punti rispetto al primo trimestre 2008 e il più alto dal 2005), negli USA altre tre banche sono fallite.

Si tratta di Cooperative Bank di Wilmington (North Carolina), Southern Community Bank di Fayetteville (Georgia) e First National Bank di Anthony (Kansas).

Portando quindi a 40 il numero degli istituti di credito statunitensi travolti dalla crisi finanziaria e costretti a chiudere quest'anno.

Tutto ciò mentre pochi giorni fa il presidente USA Obama ha presentato il "suo" piano di riforma del sistema finanziario americano (Qui il pdf della bozza di riforma in inglese).
Un piano che sembra invece una mera produzione della FED e della lobby bancaria, ben lontana dal solo significato della parola riforma.


Più controlli e lotta agli eccessi: la "rivoluzione" finanziaria di Obama
da www.valori.it - 17 Giugno 2009

L'amministrazione guidata da Barack Obama ha delineato, la scorsa notte, i dettagli di una serie di proposte di riforma del sistema finanziario americano. Secondo le intenzioni del governo di Washington sarà la stessa Casa Bianca a detenere più poteri di controllo, mentre saranno imposti nuovi limiti alle più importanti compagnie finanziarie. L'obiettivo è quello di non consentire più che queste ultime si prendano rischi troppo elevati, in grado di provocare o inasprire crisi economiche come quella che stanno vivendo in questo momento gli Stati Uniti.

Le novità sono contenute in una bozza di 85 pagine, un libro bianco del quale la stampa americana è venuta in possesso ieri. Il documento sottolinea innanzitutto le ragioni della crisi: la mancanza di regole che ha consentito alle compagnie di concedere prestiti rischiosi a chi non godeva di sufficienti garanzie; l'utilizzo massiccio di nuovi strumenti finanziari con i quali gli stessi regolatori non avevano dimestichezza; i giganteschi bonus concessi ai manager, sulla base di obiettivi di breve termine, e gli scarsi accantonamenti di riserve per far fronte ad eventuali perdite. Eccessiva aggressività e scarsa prudenza, insomma. «Sebbene la crisi abbia numerose cause, è chiaro che il governo avrebbe potuto fare di più per prevenirla, evitando di avallare una crescita senza controllo e mantenendo condizioni di stabilità per il sistema finanziario», si legge nel "white paper".


Per il futuro, dunque, la Casa Bianca propone cinque punti chiave. Un incremento dei poteri della Federal Reserve, che sarà dotata di strumenti adatti a tenere sotto controllo il sistema; la richiesta al congresso di autorizzare il governo a smantellare le grandi aziende in difficoltà, al fine di evitare collassi in stile Lehman Brothers; l'estensione dei controlli federali anche sui lati più oscuri della finanza, imponendo nuove regole soprattutto nel campo degli strumenti derivati (specialmente quelli legati ai mutui); l'introduzione di una nuova agenzia per proteggere i consumatori che hanno stipulato mutui, i possessori di carte di credito e di altri prodotti finanziari; l'avvio di coordinamenti internazionali per combattere la migrazione dei business verso i paradisi fiscali.


Per gli Usa si tratta di una vera a propria rivoluzione, dopo anni di deregulation sponsorizzata ai più alti livelli (a cominciare dall'ex governatore Alan Greenspan, che ne è stato per anni uno dei più strenui sostenitori).



Barak Obama? Il migliore cameriere delle banche
da www.terrasantalibera.org - 18 Giugno 2009

Come volevasi dimostrare, il Presidente Obama si sta rivelando giorno per giorno per quello che realmente è, al di là di sceneggiate elettorali e copioni recitati ad arte per incantare i fessi che gli hanno creduto. La sua organicità al sistema di potere mondialista, e della lobby che preme per affrettare i tempi per la costituzione di un Governo Unico Mondiale, si manifesta sempre più chiaramente e bisogna proprio avere gli occhi bendati e le orecchie tappate per non accorgersene.


L'ultima trovata "rivoluzionaria" è stata la "clamorosa" dichiarazione di voler mettere tutto il potere finanziario e bancario nelle mani della Federal Reserve Bank, altrimenti detta Federal Reserve System, l'istituzione bancaria (meglio sarebbe dire "corporazione privata") che già controlla l'emissione delle banconote americane, tant'è che su tutti i dollari è apportata la scritta "Banconota della Federal Reserve" (Federal Reserve Note).


Non c'è che dire, proprio un "innovatore" questo presidente. Che genio!

Chissà da dove gli vengono certe idee "progressiste".

Qualcuno (compreso "Er Barakka", Uolter Veltroni), preso dall'enfasi di quel "Yes, we can" (dove YES sta per Yen-Euro-$dollaro), aveva addirittura paragonato Obama all'ex-presidente J.F. Kennedy. Roba da sbellicarsi dalle risa, se non fosse una tragica panzana.


La differenza sostanziale tra i due, che fa crollare totalmente l'assurdo paragone, non è tanto che Kennedy fosse cattolico e Obama di natura incerta (a parte il ramo della moglie che è confermato essere di rabbini sefarditi, i più importanti del paese...vedi link), ma che mentre J.F. Kennedy, in un guizzo di reminiscenza di etica cristiana, voleva stroncare il signoraggio usuraio della Federal Reserve, per riportare il possesso reale della valuta e della ricchezza della Nazione nelle mani del popolo americano e del governo che lo rappresentava e amministrava, Obama sta facendo esattamente il contrario: sta cioè mettendo ancora più saldamente tutto il potere finanziario e bancario nelle mani della lobby del consorzio degli usurai apolidi.


John Fitzgeral Kennedy firmò la sua condanna a morte e pagò con la vita questo suo affronto, quando il 4 giugno 1963 emise l'Ordine Esecutivo 11110, che impediva alla Federal Reserve Bank di prestare soldi a usura al Governo Federale degli Stati Uniti (...link...)


In contemporanea ordinò la stampa ed emissione di ben $ 4,292,893,815 (oltre quattromiliardi di dollari, del '63...), che arrecavano la scritta "Banconote degli Stati Uniti" (e non più della Federal Reserve), stampate dalla Tesoreria di Stato. Lentamente il potere reale della Nazione sarebbe cresciuto e tornato nelle mani di chi produceva ricchezza vera, derivante da lavoro vero.


Ma tutto ciò non poteva essere tollerato. Pochi mesi dopo, il 22 novembre del 1963, Kennedy fu assassinato e tutte le banconote da lui emesse furono ritirate dalla circolazione. Altri uomini vicini al JF Kennedy persero la vita in dubbie circostanze, ed il suo avversario politico, Lyndon B. Johnson, molto in confidenza con ambienti FED e CIA, divenne il nuovo presidente. L'Ordine Esecutivo 11110 venne dimenticato e tutto tornò come prima. Pochissimi si resero conto di quello che era successo realmente, con i riflettori nediatici, come sempre, puntati altrove.


Oggi B. Obama, rafforzando e consolidando il potere della Federal Reserve, platealmente e autoritativamente, col plauso delle marionette politico/mediatiche europee, ci sta dimostrando ampiamente per cosa e per chi stia realmente lavorando: per la dittatura mondiale della lobby.

Quale lobby? Sbizzarritevi.



Obama premia i responsabili della Caporetto finanziaria
di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - 19 Giugno 2009

Dopo la sconfitta di Caporetto il generale Badoglio, principale responsabile dello sfondamento delle nostre linee, fu promosso vicecapo di stato maggiore dell'esercito italiano. Il nuovo piano di Obama per «ricostruire la regolamentazione e supervisione del settore finanziario» sembra seguire lo stesso principio: premiare i maggiori responsabili della crisi con maggiori poteri e favorire le banche a spese degli hedge fund, come se la crisi fosse nata da questi ultimi e non dal settore bancario.

Alla Federal Reserve, che non ha certo dato buona prova come supervisore, viene assegnato il compito di vigilare su tutte le imprese finanziarie che comportino rischi sistemici. Non solo banche commerciali, quindi, ma anche assicurazioni, hedge fund, ecc. L'estensione di questa autorità a istituzioni finanziarie non bancarie e la sua centralizzazione sotto uno stesso tetto sono decisioni giuste e ampiamente scontate.

Che questo ente debba essere la Fed è meno ovvio. Da un lato, sarebbe stato logico creare un nuovo ente che radunasse sia la capacità di supervisione che i nuovi poteri di intervento (adesso affidati alla Fdic). Dall'altro, sarebbe stato preferibile dividere tra due diverse organizzazioni la gestione della politica monetaria (in cui si guarda alla liquidità del sistema) e quella di protezione della stabilità sistemica (con l'autorità di effettuare salvataggi con pesanti ripercussioni fiscali). Mescolare le due funzioni rischia di compromettere l'obiettivo primario della politica monetaria: la stabilità dei prezzi.

Ha vinto invece la lobby bancaria che voleva a tutti i costi che questa autorità fosse affidata alla Fed, sia per evitare di avere due diversi regolatori sia perché sa di potersi fidare della Fed in quanto completamente catturata dal settore bancario. A farne le spese saranno le assicurazioni e gli hedge fund, che si troveranno a essere regolati da un'entità amica delle banche e a loro ostile.

Gli hedge fund sono minacciati anche dall'introduzione di una forma di liquidazione coatta delle imprese sistemiche in crisi, sul modello dell'autorità che oggi ha la Fdic nei confronti delle banche commerciali. Secondo molti fu la mancanza di tale autorità a forzare il Tesoro americano a salvare Aig, Citigroup e Bank of America per paura delle conseguenze che un loro fallimento avrebbe comportato. Introdurre un meccanismo di liquidazione controllata è necessario. Ma la proposta attuale è troppo generica. Non specifica nell'interesse di chi tale liquidazione deve avvenire. Nel caso di una banca l'obiettivo primario è la salvaguardia dei depositi. Ma quale sarà l'obiettivo primario nel caso di un hedge fund? Con quale sequenza verranno allocate le perdite? Non è chiaro neppure quando questa autorità potrà essere invocata. Nel caso delle banche l'ente regolatore deve dichiarare che i depositi sono a rischio. Ma nel caso di un hedge fund, cosa farà scattare questa liquidazione? E quali sono le protezioni contro un uso politico di questo meccanismo?

Obama non ha neppure il coraggio di consolidare tutti i supervisori. Non si era forse detto che una delle cause della crisi era la frammentazione delle autorità di regolamentazione? Nonostante alcuni passi avanti in questa direzione, il nuovo piano non elimina questa frammentazione. Anzi crea un'altra agenzia con il compito di proteggere i consumatori.

L'unico ente che sembra pagare giustamente per le sue colpe è l'Office of Thrift Supervision. Era il principale supervisore delle imprese peggiori: Aig, Countrywide, IndyMac, Washington Mutual. Ma è troppo presto per celebrare vittoria. Questo ente fu abolito già da Bush padre, ma risuscitò sotto altro nome il giorno dopo essere stato ufficialmente chiuso.

La novità più interessante, in un piano per lo più scontato, è la creazione di un consiglio di supervisione dei servizi finanziari composto da tutti i principali regolatori e dotato di uno staff permanente. Una delle tristi sorprese di questa crisi è stata la carenza di capitale umano nel ministero dell'Economia più potente del mondo. La maggior parte dello staff è di nomina politica e alla fine dell'amministrazione Bush i migliori se ne erano già andati e all'inizio dell'amministrazione Obama ci sono voluto molti mesi per completare l'organigramma del Tesoro e metterlo in grado di funzionare. Ma anche in questo caso si finisce per premiare chi non ha dato buona prova. Visto che gli economisti sono stati così bravi a prevedere la crisi, il piano di Obama vede bene di... assumerne tanti altri.


La svolta di Obama e le sue incognite
di Massimo Mucchetti - Il Corriere della Sera - 19 Giugno 2009

La Rifondazione della Vigilanza e della Regolazione finanziaria negli Stati Uniti, un documento di 88 pagine firmato dal Tesoro e presentato dallo stesso presidente Barack Obama, può essere considerata in molti modi, ma tre mi sembrano le chiavi di lettura più intriganti nel prossimo futuro: a) l’impatto sulla cultura finanziaria fino a oggi dominante; b) l’impatto sui conti delle banche e sui mercati finanziari; c) l’impatto sull’economia.

L’impatto sulla cultura finanziaria

Sarà tanto più consistente quanto più forti e positive saranno le conseguenze della riforma sull’economia. Ma già ora l’analisi della Casa Bianca fa proprie le osservazioni dei critici radicali: quelle formulate, per intenderci, da economisti come Nouriel Roubini e da speculatori-filantropi-filosofi come Georges Soros, che sul Financial Times ha esposto preferenze del tutto analoghe alla riforma obamiana soltanto poche ore prima della pubblicazione del testo del Tesoro americano (idem sentire o insider thinking?).

Punto primo, le radici della crisi risalgono indietro nel tempo. Non è, come dicono gli economisti liberisti, il frutto avvelenato dei subprime. Si cita il quasi fallimento del Long-Term Capital Management fund quale campanello d’allarme non ascoltato. E si parla esplicitamente di eccesso di fiducia nelle capacità di ripresa del sistema finanziario. Possono sembrare ovvietà. Ma con la ripresina delle Borse, già c’è chi comincia a dire che il peggio è passato e che dunque basterebbe un’aggiustatina… Punto secondo, il governo doveva fare di più per prevenire le crisi e assicurare la stabilità del sistema finanziario. La crisi sono inevitabili, certo. Ma si deve essere sempre in grado di padroneggiarle.

Il mercato, insomma, non ritrova da solo l’equilibrio. C’è un ruolo dello Stato che deve saper dire tanti no prima per non essere costretto a mettere mano al portafoglio dei contribuenti poi. Punto terzo, la regolazione e la vigilanza devono essere globali nel singolo mercato e coordinati sul piano internazionale. I controlli fino a ieri riguardavano le banche e non le loro entità di controllo. In nome della flessibilità le banche d’investimento e le assicurazioni come Aig potevano scegliere a quale regime assoggettare sé stesse e le proprie controllate ufficiali e non ufficiali. Ora questa cultura della deregulation cede il passo a una forte regulation. Obama sa che la finanza cercherà sempre nuove vie per aggirare i controlli, e lo dice. Proprio per questo criteri, poteri e soggetti della vigilanza saranno disegnati in modo da far vincere le guardie nell’eterna rincorsa contro i ladri.

L’ideologia liberista, dunque, arretra alla Casa Bianca. Quali saranno le conseguenze lo vedremo con il tempo. Astrattamente parlando, ci sarebbe da chiedersi: se l’arbitraggio regolatorio non è più una virtù per l’economia, perché tale dovrebbe essere ancora l’arbitraggio fiscale all’interno di uno Stato federale o di un’associazione di Stati con un’unica moneta (Usa o Unione europea)? Ma non corriamo troppo.

L’impatto sui conti delle banche e delle altre istituzioni finanziarie

La riforma dà indicazioni qualitative su 5 punti principali: 1) le banche dovranno avere più capitale e le banche maggiori ne dovranno avere più delle altre ed essere sottoposte a una più stringente vigilanza; 2) il credito dovrà essere concesso in modo trasparente evitando di darlo, senza adeguati accantonamenti, a clienti con alta probabilità di insolvenza; 3) la banca che cartolarizza crediti deve trattenere il 5% del rischio sui propri libri; 4) la finanza derivata, i cui prodotti vengono trattati over the counter, fuori dai mercati regolati, deve essere riportata sotto la regolazione attraverso la standardizzazione di questi titoli finora disegnati su misura; 5) gli advisor degli hedge fund, ma anche dei private equity e dei venture capital, si devono registrare presso il regolatore e devono dare tutte le informazioni sui fondi da loro amministrati.

Per immaginare l’impatto sui conti proponiamo, fra le molte possibili, cinque domande: 1) fin dove verrà alzata l’asticella del capitale minimo richiesto alle banche, a quelle che lo sono e dicono di esserlo e anche a quelle che non lo dicono ma lo sono?; 2) quali saranno le percentuali degli accantonamenti più stringenti?; 3) il 5% non è un po’ poco?; 4) quanta finanza derivata si farà ancora con tali restrizioni e come si organizza il rientro della tecnofinanza selvaggia esistente?; 5) quanto resterà di tutte queste raccolte di capitali privati (hedge, private, etc...) che sono nate proprio per stare lontane dai riflettori della Sec, della Fed e compagnia? Tanto per dare un’idea suggestiva e non certo puntuale, proviamo ad azzardare una mezza risposta alla domanda n. 1 rielaborando il recente rapporto di Mediobanca sulle maggiori banche internazionali. Nel 2008, dunque, le prime 17 banche commerciali americane hanno imbarcato perdite per 265 miliardi di dollari, che hanno coperto per 235 miliardi attraverso aumenti di capitale sottoscritti per 120 miliardi allo Stato quale parte di un più generale programma di aiuti per 797 miliardi.

Nel 2003, queste banche avevano una leva finanziaria di 18,3 volte. Per tornare a quella leva servirebbero 58 miliardi. Per avere una più tranquillizzante leva di 15, ne servirebbero 155. Nel periodo 1998-2006, queste 17 banche hanno raccolto nel loro anno migliore 18 miliardi di nuovi capitali. Di questo passo ci vorrebbero 3 anni per arrivare alla leva del 2003 e 9 per arrivare a quella più tranquillizzante. Sempre che non riprendano a dare megadividendi e ad acquistare azioni proprie per drogare le quotazioni dei loro titoli e senza considerare la restituzione dei fondi pubblici. Capite di che cosa stiamo parlando? Di quali enormi spostamenti di denaro? Se poi dovessimo passare alle investment banks, la partita delle percentuali si farebbe drammatica.

Queste restituiscono i versamenti pubblici in conto capitale (poca cosa) così da recuperare piena libertà di bonus. Ma non si tolgono dall’ombrello protettivo della Federal Reserve all’ombra del quale si erano messe dichiarandosi banche commerciali senza esserlo, con la benedizione del governo impaurito dallo spauracchio di altre Lehman. Avrà la Fed il coraggio di dire che così è troppo comodo? Che non si gioca con le scadenze degli esercizi come ha fatto Goldman Sachs per rendere meno evidenti le perdite? Che essendo le investment banks i soggetti più a rischio dovranno avere i maggiori requisiti di capitale? Va bene esporre in bilancio il fair value e il valore contabile, ma di quale terrà conto la Vigilanza?

L’impatto sull’economia

La riforma obamiana diventerà operativa con il tempo. I requisiti di capitale saranno stabiliti, per esempio, entro la fine dell’anno e da allora è prevedibile che si darà un adeguato respiro alle banche per mettersi a posto. Se è vero che la lunga espansione dell’economia è stata alimentata dal ricorso al debito, sarà anche vero che una regolazione più stringente, sostenuta da una Vigilanza finalmente occhiuta, potrebbe probabilmente comportare un raffreddamento, ceteris paribus, dell’economia.

C’è dunque il pericolo che la conquista di una maggior stabilità comporti un aggravarsi della recessione, il che non sarebbe augurabile per nessuno e meno che mai per un governo che fa della lotta alla disoccupazione e della ripresa dei redditi del ceto medio le sue bandiere. In questo quadro, la modulazione dei tempi e delle quantità (in quanti anni e in qual misura le banche dovranno rafforzare il patrimonio) in relazione all’andamento dell’economia diventa così uno dei passaggi più delicati dell’esecuzione della riforma.

Un passaggio che s’intreccia con l’aumento della spesa e degli investimenti governativi, finanziati con il debito pubblico, a compensazione della spesa e degli investimenti privati depotenziati dalla necessità di rientro dall’eccesso di debito. E qui, per gli Usa, si aprirà il problema dei problemi perché l’incidenza della spesa pubblica nell’economia è un potente segnalatore del modello sociale verso il quale si tende.


Deaglio: Obama e Draghi sono stati chiari: la fine della crisi non si vede
da www.ilsussidiario.net - 19 Giugno 2009

Obama ha presentato la riforma del sistema operativo della finanza Usa. Una riforma politica prima ancora che economica, dice l’economista Mario Deaglio. Per marcare segnare una prima differenza importante dopo l’era Bush, quando con i soldi pubblici si sono salvate le banche. Prevale, nelle massime autorità, il tentativo di limitare con regole certe gli abusi della finanza, quella “struttura finanziaria parallela” già stigmatizzata da Mario Draghi nel luglio dello scorso anno; o di definire strategie di uscita da certe politiche pubbliche che non paiono lungimiranti, perché la fine della crisi è ancora lontana.

Deaglio, la Financial Regulatory Reform mette mano alla «pulizia del gran disordine» di Wall Street, come ha detto il presidente Obama. E affida alla Fed un ruolo di “superpolizia”. È sorpreso?

No, se collochiamo la riforma nella situazione politica complessiva e nella politica economica di Obama. Il presidente Usa è stato eletto sulla base della promessa di tutelare i risparmiatori e i consumatori e invece si è trovato, appena eletto, a dover salvare le banche con i soldi pubblici. In altre parole ha continuato senza differenze apprezzabili la politica di Bush. Questo ha creato nei democratici un certo sconcerto, che da noi è stato sottovalutato ma che in Usa è abbastanza forte. A questo punto la domanda politica, prima ancora che economica, era che le istituzioni che sono state beneficiarie degli aiuti pubblici mutassero radicalmente nei loro rapporto con tutti gli stakeholders.

Non c’è il rischio che la concentrazione di competenze nella Fed renda più arbitraria la regolamentazione di cui si avverte la necessità?

Se guardiamo la riforma dal punto di vista di una banca centrale europea si tratta di misure assolutamente necessarie e di buon senso, che seguono - per quello che ne sappiamo ora - molto blandamente le misure in vigore da noi. In Italia la banca centrale può vedere assolutamente tutto, fino all’ultima virgola, e lo fa. Facendosi mandare ogni settimana in forma computerizzata i conti di tutte le banche italiane. E se non è convinta di qualcosa manda gli ispettori.

Non è quindi il caso di scandalizzarsi se questo accade nella capitale del liberismo.

Chi crede nel liberismo senza regole griderà allo scandalo, ma chi pensa che le regole sono necessarie non poteva certo illudersi che con i guai che hanno combinato le banche americane, si potesse pensare di lasciarle lì a farne altri con i soldi pubblici.

Anche Mario Draghi è tornato di recente a stigmatizzare una carenza di regolamentazione. Al tempo stesso ha detto che occorre far sì che la regolamentazione non soffochi del tutto l’innovazione finanziaria, alla quale non si può rinunciare.

Draghi è un convinto liberista, però è anche il governatore della banca centrale più severa d’Europa e quindi sa benissimo che buone regole hanno contribuito a far sì che le banche italiane non fossero travolte dalla crisi com’è stato per le banche straniere. Non dimentichiamo che il Financial Stability Board che egli presiede dovrebbe preparare per la fine di settembre, cioè per l’assemblea del Fmi, un rapporto su come vanno cambiate le regole. E questo spiega il suo tentativo di trovare un compromesso, che in pratica sarà poi il tentativo di trovare un compromesso tra i componenti del Board e i vari paesi che dovranno approvare le sue proposte.

Il suo è quindi un atteggiamento improntato alla prudenza?

Non dimentichiamo la denuncia dello stesso Draghi nella sua relazione del 31 luglio 2008, quando disse che i grandi centro finanziari mondiali avevano creato una “struttura finanziaria parallela”. Parole fortissime per un banchiere centrale. È controproducente quindi in un momento come questo osannare l’innovazione, quando c’è invece bisogno di chiarezza e di un po’ più di trasparenza.

Qual è a suo avviso il senso del richiamo del Governatore alla necessità di elaborare «strategie di uscita» da politiche di bilancio troppo espansionistiche e finalizzate a «mantenere l’ancoraggio delle aspettative di inflazione»?

Io vedo il discorso di Draghi come il logico completamento del discorso di Bernanke del 3 giugno, in cui il capo della Fed ha lanciato un forte warning al governo Usa che potremmo ritradurre in questi termini: è vero che avete sfide importanti di breve periodo come la disoccupazione, ma al tempo stesso la vostra prima sfida di medio-lungo periodo è la tenuta dell’intero sistema finanziario, e se salta quello salta tutto. Questa banca centrale non vi aiuterà più di tanto. Dovete presentare un piano di rientro dal deficit mostruoso che state creando.

E quando Draghi parla di exit strategy dice proprio questo?

Direi di sì: bisogna che i debiti pubblici, e quindi i deficit, non vadano fuori controllo più di quanto lo sono ora. È la prima volta che c’è il riconoscimento ufficiale da parte dell’uno e dell’altro che l’uscita attuale dalla crisi non va bene. E non è vero - aggiungo io - che i dati dell’economia reale stanno migliorando. Il fondo della recessione, che sembrava essere stato toccato, ancora non si vede. È dal 2007 che si continua a spostare sempre un po’ più in là il termine della crisi. La realtà è che la profondità di caduta dell’economia reale ha colto tutti di sorpresa.

Secondo gli ultimi dati Ocse dobbiamo aspettarci un calo del Pil del 5,3% nel 2009, seguito da una ripresa dello 0,4% nel 2010. E una disoccupazione al 10% alla fine del 2009. L’Ocse punta il dito contro una certa “debolezza del sistema italiano di welfare”.

Il sistema delle pensioni andrà gradualmente a regime nell’arco di altri 20, 25 anni. Le pensioni scenderanno rispetto allo stipendio e i giovani di oggi se la vedranno durissima. Tuttavia è un sistema stabilizzato e il deficit che crea non dovrebbe aumentare più, se mai ridursi un poco se prolunghiamo l’età pensionabile. E la nostra sanità, se la guardiamo in termini di Pil, costa poco: circa la metà di quella americana, ma con risultati migliori.

I dati Ocse danno in aumento il nostro debito pubblico: oltre il 115% del Pil e vicino al 120% entro la fine del 2010. Non dicono però nulla del nostro risparmio privato…

Infatti. E non dicono che quell’aumento è molto inferiore a quello che si prospetta per Gran Bretagna, Francia e Germania che partono da quote più basse ma che vedranno un aumento del debito ben superiore al nostro, avvicinandosi quindi ai livelli italiani. Non c’è da stupirsi: nonostante tutti questi warning, se un governo deve scegliere tra il 25% di disoccupati e il 25% di inflazione, sceglie certamente il 25% di inflazione.

I Tremonti bond sono pronti, ma le imprese non chiedono credito perché soffrono. Fino ad oggi la crisi all’Italia non è costata un euro. Stiamo pagando in termini di economia reale quello che non abbiamo speso dando soldi pubblici alle banche?

Forse, ma altri paesi stanno pagando entrambi i costi. Le nostre banche stanno bene e hanno i conti a posto, ma non sono stragonfie di liquidità: l’aumento del rischio che c’è nel sistema impone alle banche di patrimonializzarsi e di conseguenza i prestiti diminuiscono. Il nostro problema è riuscire a concentrare gli aiuti sulle imprese, ma qualcosa cambierebbe se se ci fosse qualche forma di garanzia a loro favore.

A che cosa pensa?

A uno strumento come la Cassa depositi e prestiti. Potrebbe aiutare le imprese senza esborsi particolari, ma semplicemente emettendo fideiussioni. Di fronte ad una garanzia di Cdp la banca vedrebbe ridotto il livello di rischio e quindi potrebbe dare più credito. E non verrebbero toccati i conti pubblici.

Un’ultima considerazione. Se i segnali macroeconomici non sono positivi, come vede l’impennata dei mercati?

È stata totalmente dovuta ai salvataggi delle banche. Ma adesso tutti hanno paura dei bilanci semestrali che usciranno. I segnali che arrivano dalle imprese, in Italia e all’estero, non sono buoni e quindi c’è l’impressione che la crisi possa estendersi anziché ridursi. La maggioranza dei commentatori ha creduto che con marzo la caduta produttiva fosse finita e ha sopravvalutato i germogli della ripresa. In realtà nelle ultime otto settimane il clima è cambiato e i germogli si sono gelati. Si è visto che la caduta era più forte del previsto e la ripresa più lontana. Senza dubbio sarà molto più lenta di quello che si pensava fino a due mesi fa.