martedì 16 giugno 2009

Il passo di gambero di Netanyahu

L'ultimo discorso del premier israeliano Netanyahu non ha sostanzialmente raccolto reazioni troppo entusiaste. Il portavoce di Obama, Robert Gibbs, ha riferito che il presidente lo considera "un grosso passo avanti" per il processo di pace, Frattini invece ha definito le parole di Netanyahu "un passo in avanti a metà".

Anche se è veramente surreale definire pure un mezzo passo in avanti dichiarazioni come "Sono due le condizioni per la nascita del nuovo Stato (palestinese, ndr.): la demilitarizzazione, che sia garantita dalla comunità internazionale, in primis dagli Stati Uniti [...] Non possiamo accettare uno stato palestinese armato... un Hamastan [...] E il riconoscimento da parte dei palestinesi di Israele come Stato del popolo ebraico ".

Quanto poi alla questione dei profughi palestinesi, per Netanyahu, la soluzione deve avvenire al di fuori dei confini di Israele, escludendo dunque l'ipotesi di un loro ritorno entro il territorio israeliano. Inoltre non ha fatto praticamente cenno al tema degli insediamenti, di cui gli USA avevano chiesto il congelamento, dicendo solo che "La questione territoriale sarà discussa negli accordi definitivi. Fino ad allora non aggiungeremo nuovi insediamenti".

Parole comunque respinte al mittente dal presidente dell'Anp, Abu Mazen, che ha parlato di discorso che "silura gli sforzi di pace", mentre Hamas lo ha definito carico di ideologia "razzista ed estremista". Lo stesso Mubarak ha detto che "l'invito" di Netanyahu a riconoscere Israele come stato ebraico "complicherà ancor più la situazione e farà abortire tutte le possibilità di pace".

Ma Netanyahu ha raggiunto il grottesco quando ha esortato i dirigenti palestinesi a riprendere subito i negoziati di pace "Incontriamoci per costruire la pace [...] Non c'è un solo israeliano che vuole la guerra [...] Non siamo disposti a sedere a un tavolo con terroristi che vogliono distruggerci".
Chiudendo con la ciliegina finale quando ha detto di attendersi dall'Anp che riporti l'ordine nella Striscia di Gaza, controllata da Hamas.

Non c'è che dire, il discorso di Netanyahu è proprio un bel passo in avanti...verso l'ennesima guerra, sempre se Obama non si metta di traverso.


"No al protettorato sulla Palestina"
di Michele Giorgio - Il Manifesto - 16 Giugno 2009

L'Autorità palestinese (Anp) alza la voce e denuncia come un “inganno” ai danni della comunità internazionale e un “siluro” contro il processo di pace, l'apparente accettazione da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu di uno Stato palestinese smilitarizzato e privo di reale sovranità. Alcuni dei principali esponenti dell'Anp si dicono certi che Stati Uniti e Unione Europea non si lasceranno convincere dalle “proposte mediatiche” illustrate domenica sera dal premier israeliano. Eppure dietro questa fiducia di facciata nei confronti delle posizioni della comunità internazionale, in particolare dalla Casa Bianca, tra gli uomini del presidente Abu Mazen è scattato l'allarme rosso, ed è diffuso il timore che Bruxelles e Washington possano adottare una posizione più morbida verso Netanyahu, specie sulla questione del blocco della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Il quotidiano al-Quds al-Arabi di Londra ieri ha scritto che Netanyahu ha passato “la palla nel campo arabo-palestinese”. Abu Mazen, in sostanza, potrebbe finire sotto pressione di Stati Uniti ed Europa, spinto ad accettare la ripresa senza precondizioni del negoziato invocata ieri dal premier israeliano e a rinunciare al blocco della colonizzazione. Tra i più sdegnati per l'approvazione al discorso di Netanyahu giunta da non pochi esponenti dell'Ue, c'è il capo-negoziatore dell'Anp Saeb Erekat.

Il premier israeliano Netanyahu ha descritto uno Stato palestinese con sovranità molto limitata, eppure Stati Uniti e Unione Europea si sono affrettati ad applaudirlo. Come lo spiega?
Non me lo spiego, anzi trovo del tutto illogico questo entusiasmo degli europei e degli americani. Forse che non hanno ascoltato le parole di Netanyahu? È stato vago su tutto, ha detto di no al blocco della colonizzazione, ha ribadito di fatto il suo no alla soluzione dei “due Stati” perché lo Stato palestinese che ha in mente in realtà è un protettorato. Ha detto di no alla Road Map, al piano di Annapolis, al discorso pronunciato (il 4 giugno al Cairo) dal presidente Barack Obama. Ha detto no a tutto, bastava sentire il suo discorso, e neppure con troppa attenzione, per capire che il disegno strategico di Netanyahu non vuole favorire la pace, ma la continuazione dell'occupazione e del conflitto israelo-palestinese. Se gli europei e gli americani preferiscono non vedere, far finta di non capire quello che dice Netanyahu, farsi prendere in giro, è un loro problema perché noi palestinesi diciamo no a questo colossale inganno.

I media di mezzo mondo non parlano d'altro che della svolta di Netanyahu che finalmente ha accettato l'indipendenza palestinese. Indipendenza palestinese? Ma di quale indipendenza parlano?
Netanyahu è stato chiarissimo: quando i palestinesi accetteranno di non avere alcuna sovranità su Gerusalemme, quando rinunceranno al controllo su confini e spazio aereo, quando riconosceranno Israele come Stato degli ebrei dimenticando che nel paese vivono un milione e mezzo di arabi, quando accetteranno l'autorità di fatto di Israele sul loro territorio, allora potranno issare la bandiera, cantare l'inno nazionale e chiamare i loro villaggi Stato di Palestina. Tutto ciò è assurdo oltre che inaccettabile. Ripeto, sono molto sorpreso dal livello di approvazione che il discorso di Netanyahu ha ricevuto in Occidente.

A questo punto è possibile che Ue e Stati Uniti cerchino di convincere Abu Mazen a tornare al tavolo delle trattative, rinunciando ad ogni precondizione, e riconosca Israele quale patria del popolo ebraico. Come reagireste a eventuali pressioni di questo tipo?
Noi abbiamo capito bene il significato del discorso di Netanyahu e non cederemo di fronte a chi offre il nulla e inganna la comunità internazionale. Riguardo alla questione del riconoscimento di Israele quale Stato ebraico, il presidente Abu Mazen qualche settimana fa è stato categorico. Noi palestinesi abbiamo già riconosciuto lo Stato di Israele e continueremo a riconoscerlo nei termini che conosciamo. Non ci interessa come si vede e si autodefinisce Israele, ufficialmente siamo impegnati in un processo con lo Stato di Israele e andremo avanti così. Quando si va all'ambasciata israeliana di Roma sulla targa all'ingresso c'è forse scritto: Stato del popolo ebraico? No, c'è scritto ambasciata di Israele e noi a quello Stato continueremo a fare riferimento.


Nethanyahu sotterra il piano di pace
di Stefania Pavone - Altrenotizie - 16 Giugno 2009

Attesissimo e contornato da tanti punti interrogativi, da giorni e giorni di indiscrezioni, il discorso di Bibi, il più atteso della storia d’Israele, non ha sorpreso davvero nessuno. Si alla Road Map, dice Nethanyau, in risposta alle sollecitazioni dell’Obama speech del Cairo; ma no e ancora no ad uno stato palestinese veramente libero. E se Washington indica come “passi significativi” le parole di Bibi, Abu Mazen e la moderata Al Fath fanno sapere che il processo di pace è bello che morto e sepolto. La Palestina che vuole Nethanyau, insieme ad una coalizione di destra estrema che si è preoccupata di indirizzare politicamente le coordinate del discorso del premier, sarà uno stato satellite, completamente demilitarizzato, senza Gerusalemme come propria capitale. Il sì di Nethanyau alla sovranità sui territori occupati dai palestinese sbianca lentamente, mano a mano che corrono le parole nell’aria infuocata dell’aula magna del Be- Sa Center di Tel Aviv.

Nessuno stop agli insediamenti dei coloni israeliani e dei profughi palestinesi e della loro possibilità di tornare, questione chiave di tutti i tavoli diplomatici franati sino ad oggi, neanche a parlarne: non si sognino i palestinesi di risolvere il problema dentro Israele. Nel discorso di Nethanyau la pace muore ogni momento di più, rimane il sogno proibito della terra di Palestina. Infatti, ad uno ad uno cadono, nelle parole del premier, i tasselli essenziali che hanno forgiato in tanti anni i fallimenti diplomatici degli infiniti tavoli delle paci: Gerusalemme, i profughi, la fine dell’embargo contro Gaza.

Il roboante discorso di Nethanyau, condito di pause solenni, non è da vero statista, ma da uomo della destra estrema di Israele: nulla di nulla viene davvero concesso ai palestinesi. E ancora: il rovesciamento della questione della sicurezza d’Israele sulle spalle dei vicini di casa formulato come un teorema nelle parole del premier israeliano.

Non è emerso comunque con chiarezza che cosa intenda Nethanyau per stato palestinese. Disarmato, dipendente economicamente, azzerato nella possibilità di ricomporre la sua diaspora: una concezione ristretta della sovranità e una limitata e condizionata visione dell’eterna soluzione di “due popoli e due stati”. Il riconoscimento di Israele come stato ebraico da parte dei palestinesi, posta invece come condizione vincolante alle trattative di pace, ancora una volta rivela la sostanza dell’elenco dei buoni proposito del premier Nethanyau. Come pretendere la vicinanza tra i due popoli se il riconoscimento dell’uno significa il disconoscimento della storia dell’altro?

Delusi, infatti, gli interlocutori moderati del falco israeliano. Nabil Rudeina, di Al Fatah, mette una pietra tombale sul processo di pace: “Questo discorso ha la pretesa di iscriverci al movimento sionista mondiale, ma di fatto silura tutti gli sforzi di pace”. Fischia forte l’Autorità nazionale palestinese per bocca di Saeb Erekat :“La pace può aspettare anche mille anni”. E infatti Nethanyau, che dice falsamente di volere la pace, detta richieste inaccettabili: la riapertura del negoziato dovrebbe avvenire sotto il segno dell’esclusione e della neutralizzazione di Hamas, oltre che senza armi e spazio aereo.

Parole forti, che dicono quanto il premier israeliano abbia dovuto concedere all’estrema destra in termini di identità. Sia sul principio di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, “unica e indivisibile”, sia sul terreno dei profughi che non possono ritornare perché” è contro il principio d’Israele in quanto stato ebraico”, la destra di Nethanyau si ricombatta salda attorno alla continuazione della politica di Sharon che ha distrutto l’identità palestinese attraverso una massiccia opera di colonizzazione dei territori.

E mentre Mitchell e Obama omettono colpevolmente di visitare Gaza nei loro brillanti viaggi in Medio Oriente, questo apparente successo della diplomazia Usa, decantato dalla stampa nazionale, fa fatica a rendersi chiaro. Nulla, infatti, è stato detto sui territori colonizzati. Nulla si è fatto per Gaza. Nulla si è deciso in merito ai modi e alle forme della sovranità palestinesi. Agli arabi di Palestina si concede al massimo di guardare sopra la testa, lì nel cielo, dove sono piovute bombe e dove oggi, nessun bambino, fa volare gli aquiloni.


Gli insediamenti in Cisgiordania e il futuro delle relazioni USA-Israele
di George Friedman - Stratfor - 8 Giugno 2009
Traduzione di Massimo Janigro per www.eurasia-rivista.org

Fra la retorica del discorso tenuto dal presidente statunitense Barack Obama il 4 giugno al Cairo c’era una sostanziale indicazione di cambiamento, non nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo islamico, bensì quelle tra gli Stati Uniti e Israele. Questo cambiamento in realtà è emerso già prima del discorso, che in realtà ha appena toccato l’argomento. Ma non è un cambiamento di poca importanza e non deve essere sottovalutato. E ci sono possibilità perché si trasformi in una grande frattura fra Israele e gli Stati Uniti.

La questione immediata riguarda gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Gli Stati Uniti hanno per lungo tempo espresso la loro contrarietà all’aumento degli insediamenti, ma non hanno fatto molto oltre la retorica. Certamente l’espansione continua e lo sviluppo di nuovi insediamenti in Cisgiordania non ha portato le precedenti amministrazioni a modificare la politica verso Israele. E mentre gli israeliani hanno occasionalmente modificato le loro politiche, hanno continuato a costruire nuovi insediamenti. L’accordo basilare tra le due parti ha sempre visto gli Stati Uniti opporsi formalmente agli insediamenti, ma senza trasformare questa opposizione in un serio contrasto.
Gli Stati Uniti hanno chiaramente deciso di cambiare gioco. Obama ha detto che: ‘Gli Stati Uniti non accettano la legittimità dei continui insediamenti israeliani. Queste costruzioni violano accordi precedenti e minano gli sforzi di raggiungere la pace. E’ tempo che questi insediamenti si fermino.’

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha acconsentito a fermare la costruzione di nuovi insediamenti, ma non a ostacolare quella che lui chiama la ‘crescita naturale’ degli insediamenti già esistenti.

Obama ha messo la questione degli insediamenti in una posizione tale che sarebbe difficile per lui tornare indietro. Lo ha ripetuto diverse volte, anche nel suo discorso al mondo islamico. E’ un argomento su cui sta semplicemente seguendo le posizioni formali delle precedenti amministrazioni. E’ una questione su cui i precedenti governi israeliani presero impegni. Tutto ciò che Obama ha fatto è stato ristabilire la politica formale statunitense, su cui ci sono precedenti accordi con Israele e la richiesta di accettazione da parte di Israele. Presentata questa iniziativa nel mondo islamico, Obama l’ha portata ad un punto dal quale è difficile tornare indietro.

Obama sa che Netanyahu non è nella posizione politica di poter eseguire la richiesta, anche se fosse intenzionato a farlo. Egli guida una coalizione mosaico, all’interno della quale il sostegno della destra è critico. Per la destra israeliana, creare insediamenti in quelle che loro chiamano Samaria e Giudea è un principio fondamentale, al quale non possono piegarsi. A differenza di Ariel Sharon, un uomo di destra che era politicamente potente, Netanyahu è un uomo di destra politicamente debole. Netanyahu ha concesso tutto quello che poteva concedere quando ha detto che non sarebbero stati più creati nuovi insediamenti. Egli non ha l’abilità politica di dare ad Obama quello che questi gli chiede; Netanyahu è bloccato sulle sue posizioni, a meno che non voglia provare a ristrutturare il suo gabinetto o a persuadere persone come Avigdor Lieberman – suo ministro degli esteri appartenente alla destra – di cambiare la loro visione del mondo.

Quindi, Obama ha deciso di creare una crisi con Israele. Ed ha scelto un argomento su cui le amministrazioni democratiche e repubblicane hanno avuto la stessa posizione formale. Ha scelto inoltre un tema che non coinvolge la sicurezza di Israele in maniera immediata (non ha chiesto un cambiamento di politca verso Gaza, per esempio). Obama ha scelto un tema in merito al quale aveva i suoi predecessori dalla sua parte e che non mettesse in gioco la sicurezza immediata di Israele. Inoltre ha scelto un tema su chi ha sostegno negli Stati Uniti, ed ha fatto tutto questo per avere una resa dei conti con Israele. Più Netanyahu resiste, più Obama ottiene ciò che vuole.

La lettura di Obama della situazione arabo-isrealiana è che questa non è irrisolvibile. Egli crede nella soluzione dei due stati, giusta o sbagliata che sia. Per instituire la soluzione dei due stati Obama deve stabilire che la Cisgiordania è un territorio palestinese per diritto e non un territorio israeliano sul quale gli israeliani possono fare concessioni. La questione degli insediamenti è fondamentale per stabilire questo principio. In precedenza Israele aveva accettato sia la soluzione dei due stati che quella di non espandere i propri insediamenti. Se Obama riesce a forzare Netanyahu a cedere su questo argomento, allora prenderà in contropiede la destra israeliana, aprendo le porte ad un accordo di destra della soluzione dei due stati.

Durante tutto ciò, Obama sta aprendo porte sempre più larghe all’interno del mondo islamico, dimostrando che gli Stati Uniti sono pronti a forzare Israele a fare concessioni. Per inciso, lui vuole chiarire bene l’idea che Israele non controlla la politica statunitense, ma che Israele e gli Stati Uniti sono due nazioni separate, con differenti, e talvolta contrastanti, punti di vista. Ad Obama non farebbe paura per nulla una battaglia aperta sugli insediamenti.

Per Netanyahu questo è il peggiore terreno su cui combattere. Se avesse ricevuto da Obama un attacco attraverso la richiesta ad Israele di non rispondere agli attacchi missilistici da Gaza o dal Libano, Netanyahu avrebbe avuto il sopravvento negli Stati Uniti. Israele ha sostegno negli Stati Uniti e nel Congresso, e qualsiasi azione che possa sembrare mettere a rischio la sicurezza di Israele scatenerebbe un istantaneo rafforzamento di questo sostegno.

Ma non c’è tutto questo sostegno negli Stati Uniti per gli insediamenti in CIsgioradania. Non è un argomento su cui i sostenitori di Israele potrebbero manifestare intensamente, in larga parte perché c’è un sostanziale sostegno per la soluzione dei due stati e molta poca comprensione e simpatia per la pretesa storica per le terre di Giudea e Samaria. Obama ha scelto un tema sul quale lui ha ampio spazio di manovra, mentre sullo stesso argomento Netanyahu è politicamente bloccato.

Accertato questo, la questione è dove Obama vuole arrivare. Dal suo punto di vista lui vince, non importa cosa Netanyahu decida di fare. Se Netanyahu fa delle concessioni, allora avrà stabilito il principio per cui gli Stati Uniti possono chiedere delle concessioni ad un governo controllato dal Likud ed ottenerle. E ci saranno altre richieste. Se Netanyahu non fa concessioni, Obama può creare una divisione con Israele sul problema e può ottenere il sostegno pubblico negli Stati Uniti e usare il supporto come una leva di influenza negli stati islamici.
Perciò la questione è cosa Netanyahu intende fare. La sua migliore mossa sarebbe di dire che si tratta solo di un malinteso tra amici e far presente che il resto delle relazioni tra Stati Uniti e Israele è intatto, dall’aiuto tecnologico alla collaborazione a livello di intelligence. E’ qui che Obama deve fare la sua scelta. Lui ha posto il problema come primo puto nelle relazioni tra Stati uniti e Israele. Gli israeliani hanno rifiutato di adempiere alle richieste. Se Obama continua a comportarsi come se nulla fosse successo, allora si ritrova al punto di partenza.

Obama non ha cominciato questo confronto per chiuderla lì. Ha calcolato meticolosamente il momento in cui sollevare la questione e sapeva perfettamente bene che Netanyahu non poteva fare concessioni, così come sapeva che sarebbe arrivato a questo punto. Ovviamente, potrebbe aver aperto questo confronto come parte delle iniziative verso il mondo islamico. Ma è improbabile che Obama abbia considerato che questa iniziativa si concludesse solo con qualche discorso e ben capisce che, per il mondo islamico, la sua relazione con Israele è importante. Anche le nazioni islamiche che non sono molto propensi verso i palestinesi, come la Giordania o l’Egitto, non vogliono che gli Stati Uniti indietreggino su questo argomento.

Netanyahu ha sostenuto nel passato che le relazioni con gli Stati Uniti non sono più importanti come lo erano un tempo. La percentuale dell’aiuto degli Stati Uniti nel prodotto interno lordo di Israele è precipitata. Israele non si trova ad affrontare stati potenti, e non sta affrontando una situazione come quella del 1973, quando la sopravvivenza di Israele dipendeva dall’aiuto portato dagli Stati Uniti. L’attuale trasferimento di tecnologia è reciproco e gli Stati Uniti si fidano abbastanza dell’intelligence israeliana. In altre parole, nell’ultima generazione, Israele si è emancipato, dall’essere uno stato di dipendenza all’interno della relazione con gli Stati Uniti, allo stato attuale di mutua dipendenza.

Questo è il punto di vista di Netanyahu e da qui deriva l’idea per cui lui può semplicemente dire di no agli Stati Uniti sulla questione degli insediamenti e vivere facilmente con le conseguenze. La debolezza di questa posizione sta nel fatto che mentre Israele adesso non sta affrontando problemi strategici che non può fronteggiare da sola, queste potrebbero emergere nel futuro. Infatti, mentre Netanyahu ha urgenza di un’azione contro l’Iran, è consapevole del fatto che questa azione è impossibile senza il coinvolgimento degli Stati Uniti.
Questo porta a un problema politico. Così come la destra vorrebbe liberarsi dagli Stati Uniti, il centro e la sinistra ne rimarrebbero sbigottiti. Per Israele, gli Stati Uniti sono stati la colonna portante della psiche nazionale dal 1967. Una rottura con gli Stati Uniti creerebbe una grande crisi a sinistra e potrebbe far cadere il governo se Ehud Barak e il suo ‘Labour Party’lasciassero la coalizione al potere. Il problema di Netanyahu è il problema che Israele ha sempre avuto. E’ una nazione politicamente frammentata e non c’è mai un governo che non sia composto da frammenti. Un governo al cui interno ci sono Lieberman e Barak, non è il genere di governo capace di fare scelte audaci.

Prima di tutto è difficile capire come Netanyahu possa allo stesso tempo trattare con Obama e mantenere il suo governo unito. E’ anche più difficile capire come Obama possa ridurre la pressione. Infatti, ci aspetteremmo di vederlo aumentare la pressione, sospendendo scambi e programmi di minore importanza. Obama sta giocando sul centro e sulla sinistra israeliana, che si opporrebbero a qualsiasi rottura con gli Stati Uniti.

Obama ha una posizione solida e diverse opzioni. Netanyahu ha una posizione debole e meno opzioni. E’ difficile capire come risolverà il problema. E questo è ciò che Obama vuole, che Netanyahu si trovi a combattere con il problema. Alla fine Obama vuole che Netanyahu si pieghi sulla questione degli insediamenti e che si mantenga piegato finchè lui possa presiedere ad un accordo politico con i palestinesi. Obama vuole che Netanyahu e la destra siano responsabili dell’accordo. Così come Menachem Begin fu responsabile del trattato con l’Egitto e del ritiro dal Sinai.

Troviamo difficile immaginare come la soluzione dei due stati possa funzionare, ma il concetto è nel cuore della politica statunitense e Obama vuole la vittoria. Ha messo in movimento dei processi per creare la soluzione, prima di tutto mettendo Netanyahu all’angolo. Obama non calcola l’interesse dei palestinesi, la loro volontà e l’abilità di raggiungere un accordo con Israele, ma dal punto di vista di Obama se i palestinesi rigettano o mettono a rischio un accordo, lui avrebbe comunque influenza sul mondo islamico. Al momento, mantenere Iraq e Afganistan, che è dove lui vuole avere influenza, e tenere Netanyahu all’angolo, è molto più importante di sapere dove tutto questo alla fine potrebbe condurre.