Oggi infatti una forte esplosione è avvenuta a Kabul vicino all'ambasciata dell'India causando diverse vittime - finora almeno 12, nessuno indiano - soprattutto tra i civili, mentre i feriti sono circa 80. Il luogo dello scoppio è anche a poca distanza dal ministero dell'Interno afghano.
La sede diplomatica indiana era già stata bersaglio di un altro attentato che, nel luglio 2008, aveva causato la morte di 58 persone e il ferimento di almeno altre 150.
Attentato che molti, tra cui anche il governo USA, avevano attribuito all'ISI - l'intelligence militare pakistana.
Ed è molto probabile che anche quello di oggi rechi la stessa firma.
I taleban: "Stiamo vincendo"
di Giorgio Stabile - La Stampa - 7 Ottobre 2009
È un anniversario amaro per la coalizione occidentale in Afghanistan.
Il 7 ottobre 2001 l`operazione Enduring Freedon era cominciata trionfalmente.
In due mesi il regime dei taleban era stato spazzato via. La road map prevedeva il ritorno alla democrazia in due anni. Ieri il segretario della Difesa statunitense Robert Gates ha detto che «i taleban stanno vincendo», perché gli Usa «non hanno mandato abbastanza truppe». E il numero due della missione Onu (Unama), Peter Galbraith, cacciato pochi giorni fa per aver denunciato brogli sistematici alle elezioni presidenziali, ha accusato il suo ex capo, lo svedese Kai Eide, di essersi «allineato», cioè venduto, a Karzai:
«Un terzo dei voti per l`attuale presidente - ha detto - sono fraudolenti. E il più grande regalo che potessimo fare ai taleban, è il maggior successo strategico che hanno ottenuto in otto anni».
Il braccio di ferro all`interno dell`amministrazione americana sull`invio dei 40 mila uomini di rinforzo sta galva-` nizzando gli studenti coranici.
Ieri il loro portavoce Qari Yousif Ahmadi ha invitato gli «occupanti occidentali» ad andarsene se «non vogliono affrontare una lunga guerra», avvertendo che la storia insegna che «il popolo afghano è sempre pronto a sacrificare la vita per l`Islam». Anche se l`assalto di sabato ai marines secondo la Nato è costato ai guerriglieri «almeno cento caduti», gli islamisti sono di nuovo in grado di lanciare attacchi su larga scala.
Ieri hanno ucciso in un`imboscata dieci soldati afghani nella provincia del- l`Helmand, distrutto due blindati della Nato, colpito una pattuglia britannica con una bomba di strada. Il, sito dell`Emirato islamico dell`Afghanistan (http://alemarah.info/) riporta certosinamente le attività degli insorti. Il bollettino copre tutte le province: gonfia all`inverosimile i successi, ma sono comunque 400 i soldati della Nato uccisi ufficialmente in nove mesi, un record.
La commissione elettorale dell`Onu ha deciso alla fine di verificare i voti solo su un piccolo campione sospetto. Dopodiché sarà comunicato il risultato finale, cioè la vittoria di Karzai. Ma la data viene rinviata di giorno in giorno. La paralisi elettorale si ripercuote sulla vita civile. Il livello di sicurezza a Kabul sta precipitando.
Il triplice cerchio - Nato, esercito afghano, polizia - è stato efficace nei giorni del vo- to, ora fa acqua. Ne approfittano le bande criminali. Lunedì e ieri ci sono stati due tentativi di rapimenti. Un proprietario di un hotel è stato catturato.
Un imprenditore, assieme alle sue due guardie del corpo che avevano fatto resistenza, ucciso in pieno centro in un terrificante scambio di colpi. Per Orzala Ashraf, analista locale di una ong olandese, «sono i giorni peggiori dal 2001».
A settanta chilometri a Sud della capitale, al tramonto, ci sono i posti di blocco talebani.
A Est il gruppo alleato Hezb e Islami Gulbuddin minaccia le linee di approvvigionamento Nato dal Pakistan. Ieri il presidente francese Nicolas Sarkozy ha firmato un accordo con il Kazakhistan per far. arrivare i rifornimenti alle sue truppe da Nord, attraverso l`Uzbekistan.
La stessa strada che facevano le truppe sovietiche, all`andata e al ritorno.
La grande truffa
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 7 Ottobre 2009
La Commissione per i reclami elettorali (Eec), sostenuta dall'Onu e dal governo afgano e presieduta dal canadese Grant Kippen, ha iniziato lunedì la verifica dei voti contestati delle elezioni presidenziali dello scorso 20 agosto, temporaneamente vinte al primo turno dal presidente uscente Hamid Karzai con il 54,6 per cento dei voti contro il 27,8 per cento del suo sfidante Abdallah Abdallah.
Vittoria che verrà confermata e ufficializzata nel finesettimana se il riconteggio della Eec non farà scendere Karzai sotto il 50 per cento. In quel caso si dovrebbe andare rapidamente al ballottaggio.
Usa, Nato e Onu hanno già deciso. Eventualità scartata a priori da Stati Uniti e alleati della Nato, che infatti lo scorso 24 settembre a New York hanno deciso a tavolino di dichiarare Karzai vincitore, ignorando i colossali brogli elettorali da lui organizzati e che, secondo gli osservatori dell'Unione europea, gli hanno fruttato oltre un terzo delle preferenze ricevute.
Per nascondere lo scandalo delle frodi, il 30 settembre l'Onu ha licenziato il numero due della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, lo statunitense Peter Galbraith, che aveva denunciato i brogli elettorali e i tentativi di insabbiamento ad opera del capomissione Onu, il norvegese Kai Eide. Dopodiché, la Commissione per i reclami elettorali di Kippen - nominato dallo stesso Eide - ha elaborato un fantasioso sistema di riconteggio che invece di annullare i voti truccati dei candidati che ne hanno beneficiato (danneggiando quindi sopratutto Karzai), li toglierà nella stessa percentuale a entrambi i contendenti, in maniera tale da non compromettere la maggioranza assoluta di Karzai.
Un riconteggio che non sposterà nulla. Come si può leggere nel regolamento pubblicato ieri mattina sul sito internet della Commissione Kippen, la verifica in corso riguarda i voti provenienti da 3.498 seggi sospetti (il 13 per cento del totale), ma per sveltire i tempi verrà realmente controllato solo un campione del 10 per cento, ovvero le urne di 358 seggi.
"Per determinare l'impatto delle frodi sui risultati generali delle elezioni - si legge nel regolamento della Eec - la Commissione moltiplicherà la percentuale dei voti trovati fraudolenti, accertati nei seggi campione, per il numero totale dei voti che i singoli candidati hanno ottenuto nei seggi sospetti. Per esempio - continua il documento - se la percentuale di voti fraudolenti risultasse essere del 50 per cento, al candidato che in quei seggi ha preso un totale di 300mila voti ne verrebbero tolti 150mila e lo stesso calcolo verrebbe applicato agli altri candidati".
Quindi, i voti verrebbero dimezzati a tutti i candidati, a prescindere da quale sia stato il candidato con più voti truccati, mantenendo inalterate le percentuali relative.
Karzai rimarrà comunque sopra il 50 per cento. Se per paradosso (non così ardito) quella metà di voti fraudolenti risultassero essere tutti quanti a favore di Karzai, lui quei voti li perderebbe solo al 50 per cento, e il suo sfidante (già penalizzato dalla frode) perderebbe pure lui il 50 per cento dei suoi voti anche se questi erano del tutto regolari.
Riprendiamo l'esempio fatto dalla stessa Commissione Kippen.
Immaginiamo che nei 3.498 seggi sospetti i 300 mila voti fossero quelli a favore di Karzai, 150mila quelli di Abdallah e 100mila di altri, per un totale di 550mila voti. Se i voti fraudolenti scoperti risultassero essere il 50 per cento, tutti quanti a favore di Karzai, lui non perderebbe 275mila voti, ma solo 150mila, Abdallah ne perderebbe 75mila e gli altri 50mila. Anche se a loro vantaggio non fosse risultata nessuna frode.
A livello nazionale, i voti validi non sarebbero più circa 5 milioni e mezzo, di cui 3 milioni per Karzai (oltre il 54 per cento) e 1 milione e mezzo per Abdallah (oltre il 27 per cento): scenderebbero a circa 5 milioni e 250 mila, di cui 2 milioni e 850mila per Karzai e un milione e 425mila per Abdallah: le percentuali dei voti rimarrebbero invariate, quindi niente secondo turno e Karzai confermato vincitore.
L'Onu insabbia la frode elettorale afgana
di Enrico Piovesana - 1 Ottobre 2009
Le Nazioni Unite, con il placet del presidente Usa Barack Obama, hanno rimosso dal suo incarico lo statunitense Peter Galbraith, il numero due della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) entrato in aperta polemica con il suo capo, il norvegese Kai Eide, sulla gestione dello scandalo delle frodi nelle elezioni presidenziali del 20 agosto.
"Così l'Onu dà un segnale terribile". "E' sorprendente che le Nazioni Unite rimuovano un ufficiale perché questo era preoccupato per le frodi emerse in elezioni finanziate e supportate dalle Nazioni Unite", ha commentato Galbraith. "Così si manda un segnale terribile. Io non ero pronto a rendermi complice di un insabbiamento o di uno sforzo per minimizzare queste frodi".
"Ho avuto un duro disaccordo con il mio superiore, Hai Eide, su come affrontare la questione: quando ho chiesto di presentarle le ampie prove dei brogli alla Commissione per i reclami elettorali (Ecc) perché svolgesse ulteriori indagini, lui disse che non era il caso di diffondere queste notizie. Su pressione del presidente Karzai, Eide ha deciso di supportare il candidato beneficiario dei voti manipolati. Eide ha cercato di archiviare le frodi. Non voleva che il personale Onu ne parlasse. Non voleva, per esempio, che con gli ambasciatori a Kabul si discutesse dell'affluenza alle urne, che sapevamo essere stato bassissimo nelle province meridionali da dove invece era arrivato un numero enorme di voti".
Usa e Nato hanno già deciso: Karzai non si tocca. Nel comunicato dell'Onu che annuncia la sua rimozione, il segretario generale Ban ki-moon ha scritto che la decisione è stata presa "nell'interesse della missione" in seguito alle "inconciliabili divergenze" emerse tra Galbraith ed Eide, al quale viene "ribadito il pieno appoggio".
Cinque membri dello staff dell'Onu a Kabul hanno rassegnato le dimissioni in sostegno a Galbraith.
Secondo Abdullah Abdullah, lo sfidante di Karzai che sperava nel ballottaggio, "il licenziamento di uno come Galbraith è il segno che la frode ha avuto la meglio sulla legge".
Il secondo turno, che fino a pochi giorni fa era dato per scontato dopo l'avvio del riconteggio dei voti contestati (avviato proprio in seguito alle insistenze di Galbraith), pare ormai escluso. Sembra infatti certo che giovedì scorso, a margine dell'Assemblea Generale dell'Onu a New York, il leader di Stati Uniti e dei loro alleati Nato abbiano deciso che se anche il riconteggio dovesse privare Karzai della maggioranza, la sua vittoria verrà comunque accettata per evitare un secondo turno elettorale.
La soluzione cinese
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 6 Ottobre 2009
Un commento del 29 settembre di China Daily, passato abbastanza inosservato, si occupa della guerra in Afghanistan.
E' attribuito a Li Qinggong, vicesegretario del China Council for National Security Policy Studies, è lecito quindi supporre che rappresenti una sorta di posizione ufficiale cinese.
E' stato in seguito ripreso e analizzato da Asia Times, nella persona di M K Bhadrakumar, ex diplomatico indiano.
In una fase in cui Obama cerca di condividere il peso della "guerra diseguale" con più alleati possibile, in cui la situazione sul campo è nella migliore delle ipotesi di stallo e in cui si vocifera anche di pressioni Usa affinché la Cina offra qualche tipo di contributo, va detto che il commento ribadisce tutto il disaccordo cinese sulle ragioni stesse della guerra e sulle possibilità di uscirne sconfiggendo gli insorti afghani.
Ma il Dragone offre anche una sua "exit strategy", esposta per punti salienti. Eccoli.
* Per promuovere la fine della guerra, gli attori principali devono adottare un “approccio pacifico e riconciliatore“.
* Gli Usa devono porre fine alla “guerra al terrore” voluta da Bush nel 2001, che si è rivelata “fonte di disordine e violenza senza fine”.
* Per promuovere la riconciliazione, gli Stati Uniti devono arrestare la propria azione militare. La guerra non ha portato pace e sicurezza agli afghani né dato vantaggi tangibili agli Usa. Al contrario, la legittimità dell’azione militare americana suscita sempre più dubbi: la stessa opinione pubblica statunitense sembra ormai in maggioranza contraria alla guerra e Obama avrebbe indubbi vantaggi politici e d’immagine se riuscisse a uscirne.
* La riconciliazione deve avvenire tra governo afghano, talebani e i “signori della guerra“, cioè gli attori principali (Usa eclusi) del conflitto. Oltre ai danni provocati dall’intervento americano, l’Afghanistan sconta troppi anni di conflitti interni tra le diverse fazioni. Le elezioni del 20 agosto non hanno provocato alcun risultato apprezzabile e lo stesso presidente Karzai sta cominciando a smarcarsi dalla tutela Usa in direzione di colloqui a tre con talebani e signori della guerra. Ma il presupposto irrinunciabile di tali abboccamenti è che gli Usa terminino le operazioni militari.
* E’ necessario l’appoggio della comunità internazionale. Germania, Francia e Gran Bretagna hanno già annunciato una conferenza per parlare di exit strategy, le pressioni internazionali potrebbero favorire ulteriormente il disimpegno Usa, offrendo una “scusa” a Obama. Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, su pressione dei tre membri europei, potrebbe stendere una roadmap per la questione afghana. Tra i problemi da affrontare, l’accettazione dei talebani come controparte e il destino dei combattenti legati ad al Qaeda.
* In assenza degli americani, è necessaria una missione di peacekeeping per l’Afghanistan. Con la collaborazione di questa forza neutrale, è plausibile che il governo afghano e le sue forze di sicurezza riescano a esercitare un effettivo controllo sul territorio, mantenendo “pace e sicurezza”.
Su Asia Times, M K Bhadrakumar osserva che l'articolo di fatto sollecita un abbandono di tutta l'Asia centrale da parte degli Usa, Pakistan compreso, e che punta sul "pragmatico" Karzai - sganciato dai suoi protettori americani - come uomo della mediazione. Assegna inoltre al consiglio di sicurezza dell'Onu il compito di occuparsi della pace futura. Rinuncia quindi a una soluzione regionale, con Cina stessa, India, Russia, Iran e Paesi centroasiatici come protagonisti.
Si può aggiungere che Cina e Russia sono membri del consiglio di sicurezza. L'articolo di China Daily sembrerebbe quindi offrire un aiuto cinese, ma non alle condizioni Usa, bensì nel quadro di un multilateralismo che, dal punto di vista del Dragone, allontanerebbe l'esercito americano dai propri confini occidentali ristabilendo al contempo stabilità alla regione.
Cosa si nasconde dietro la guerra in Afghanistan?
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 6 Ottobre 2009
Perché, esattamente otto anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e occupato l'Afghanistan? Quali interessi si celano dietro le spiegazioni ufficiali di questa guerra? Le ipotesi avanzate in questi anni sono molteplici, ma nessuna abbastanza convincente. Tranne una, che però è alquanto difficile da dimostrare.
Risorse energetiche. Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre del 2000 sul sito Internet dell'Eia, l'agenzia di statistica del dipartimento per l'Energia degli Stati Uniti (e poi rimosso), l'Afghanistan viene presentato come un paese con scarse risorse energetiche (mai sfruttate) che, secondo i dati risalenti ancora al tempo dell'occupazione sovietica, consistono in riserve petrolifere per 95 milioni di barili (concentrati nella zona di Herat), giacimenti di gas naturale per 5 trilioni di piedi cubi (nell'area di Shebergan) più 400 milioni di tonnellate di carbone (tra Herat e il Badakshan).
Risorse troppo esigue per giustificare un'invasione militare costata finora, ai soli Stati Uniti, quasi 230 miliardi di dollari.
Molti in Afghanistan parlano di giacimenti di uranio nel deserto della provincia meridionale di Helmand, il cui controllo e sfruttamento sarebbe al centro di un'aspra contesa tra forze britanniche e statunitensi. Ma per ora questa storia non avuto alcuna conferma.
La pipeline Trans-Afgana. Questa è considerata da molti la vera motivazione che ha spinto gli Stati Uniti ad invadere l'Afghanistan nel 2001.
Il progetto di costruire una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l'Afghanistan occidentale (Herat e Kandahar) viene avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal (per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad) in cooperazione con il regime talebano (nel 1996 la Unocal apre una sede a Kandahar e l'anno dopo esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa).
L'idea viene accantonata alla fine degli anni '90 in attesa che "la situazione politica e militare dell'Afghanistan migliori" (fonte Eia, dicembre 2000). Vista l'impraticabilità del corridoio sud-asiatico, l'Occidente decide di puntare su quello sud-caucasico, aprendo nel 2006 un gasdotto che porta il gas turkmeno in Turchia via Mar Caspio, Azerbaigian e Georgia (e che dal 2015 verrà collegato al gasdotto Nabucco).
Il progetto della pipeline trans-afgana, però, non viene abbandonato. I tre paesi coinvolti riprendono a discuterne dal 2002 in poi, e nell'aprile 2008 firmano un accordo, anche con l'India, che prevede l'apertura del gasdotto entro il 2018 (previsione eccessivamente ottimistica secondo gli analisti di settore). A finanziare il progetto (7,6 miliardi di dollari) è la Banca per lo Sviluppo Asiatico (di cui gli Stati Uniti sono i maggiori azionisti assieme al Giappone). Le compagnie petrolifere interessate sono quelle statunitensi, britanniche e canadesi.
Per quanto importante, appare azzardato individuare in questo progetto - di difficilissima realizzazione e surclassato da altre rotte gasifere - la ragione della prosecuzione dell'occupazione occidentale dell'Afghanistan.
Posizione strategica. L'Afghanistan ha la sfortuna di trovarsi nel cuore del continente asiatico, in una posizione strategica che consente a chi lo controlla di monitorare da vicino tutte le potenze nucleari della regione, Cina, Russia, India e Pakistan, e di completare l'accerchiamento dell'Iran, che in caso di guerra con gli Usa si troverebbe a fronteggiare un attacco su due fronti: quello iracheno e quello afgano.
Secondo molti analisti militari la volontà statunitense di controllare l'Afghanistan va però letta soprattutto in chiave di contrapposizione alla Cina, considerata dal Pentagono come la maggiore minaccia potenziale all'egemonia militare ed economica globale degli Stati Uniti non solo in Asia, ma anche in Medio Oriente, Africa e America Latina.
Una minaccia divenuta più reale dopo la creazione, nel giugno 2001, dell'alleanza politico-militare guidata da Pechino: l'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco), che riunisce la Cina, la Russia, le repubbliche centroasiatiche e presto, forse, anche l'Iran. E che in futuro, vista la sua progressiva integrazione con l'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), l'alleanza politico-militare a guida russa, potrebbe estendere la sua influenza fino all'Europa orientale (Bielorussia) e al Caucaso (Armenia), diventando a tutti gli effetti un'alleanza contrapposta alla Nato a guida Usa.
Un Afghanistan sotto controllo statunitense rappresenta una spina nel fianco per la Cina, in particolare per la sua prossimità allo Xinjang, regione ricchissima di petrolio destabilizzata dal nazionalismo uiguro (tradizionalmente sostenuto dalla Cia).
La rilevanza geostrategica dell'Afghanistan è innegabile e ha certamente giocato un ruolo importante nella decisione statunitense di occupare l'Afghanistan e di impiantarvi basi militari permanenti.
Il business della droga. Ma forse dietro la guerra in Afghanistan si nascondono interessi ancor più grandi e inconfessabili: quelli legati al controllo del traffico mondiale dell'eroina, ovvero di uno dei business più redditizi del pianeta, con un giro d'affari annuo stimato attorno ai 150 miliardi di dollari l'anno.
Non è un mistero che il boom della produzione di oppio/eroina negli anni '70 nel cosiddetto Triangolo d'Oro (Laos, Birmania e Cambogia) sia stato opera dalla Cia, che con i ricavi del narcotraffico finanziava le operazioni anti-comuniste nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema - e questo è altrettanto risaputo - fu adottato dalla Cia negli anni '80 in America Latina, per finanziare (con i proventi della coca) la guerriglia antisandinista dei ‘Contras' in Nicaragua, e in Afghanistan per finanziare (con i proventi dell'eroina) la resistenza anti-sovietica dei mujaheddin.
In Afghanistan il business continuò anche negli anni '90 e si incrementò con l'avvento al potere dei talebani, notoriamente sostenuti dalla Cia. Fino a quando nel 2000 il mullah Omar, allo scopo di guadagnare sostegno internazionale al suo regime, decise di vietare la produzione di oppio, che infatti nel 2001 crollò a livelli prossimi allo zero.
Produzione che nell'Afghanistan ‘liberato' e controllato dalle forze armate e dall'intelligence Usa è ripresa a pieno ritmo fin dal 2002 (quando ancora i talebani non erano tornati) polverizzando ogni record storico e trasformando in pochi anni il paese sud-asiatico nel principale produttore mondiale di eroina (93 per cento della produzione mondiale). Una situazione che le forze Usa presenti in Afghanistan si sono sempre rifiutate di contrastare dicendo che questo "non era compito loro" e lasciando che se ne occupasse il governo-fantoccio di Kabul.
Secondo un numero sempre maggiore ed eterogeneo di esperti e di persone ‘ben informate', la Cia avrebbe in sostanza appaltato produzione e lavorazione di droga al ‘narco-Stato' guidato da Karzai, proteggendo le rotte di smercio via terra (Pakistan, Iran e Tajikistan) e gestendo direttamente il trasporto aereo all'estero.
Una nuova Air America? Secondo un'inchiesta televisiva condotta dal canale russo Vesti l'eroina afgana viene portata fuori dall'Afghanistan a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia. Spesso, ha scritto sul Guardian la giornalista afgana Nushin Arbabzadah, nascosta nelle bare dei militari Usa, riempite di droga al posto dei cadaveri.
"Penso che sia possibile che questo avvenga, anche se non lo posso provare", ha diplomaticamente commentato l'ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov.
Il giornalista russo Arkadi Dubnov di Vremya Novostei, riportando informazioni fornitegli da una fonte all'interno dei servizi afgani, ha scritto che "l'85 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan è trasportata all'estero dall'aviazione Usa".
Quest'estate il generale russo Mahmut Gareev, un ex comandante delle truppe sovietiche in Afghanistan, ha dichiarato a Russia Today: "Gli americani non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro almeno 50 miliardi di dollari all'anno. Non è un mistero che gli americani trasportano la droga all'estero con i loro aerei militari.".
Il giornalista statunitense Dave Gibson di Newsmax ha citato una fonte anonima dell'intelligence Usa secondo la quale "la Cia è sempre stata implicata nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando avanti quello che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la guerra in Vietnam".
L'economista russo Mikhail Khazin in un'intervista ha dichiarato che "Gli americani lavorano duro per mantenere in piedi il narcobusiness in Afghanistan attraverso la protezione che la Cia garantisce ai trafficanti di droga locali".
"Gli Stati Uniti non contrastano il narcotraffico afgano per non minare la stabilità di un governo sostenuto dai principali trafficanti di droga del Paese, a cominciare dal fratello di Karzai", scrive il noto giornalista statunitense Eric Margolis sull'Huffington Post. "Le esperienze passate in Indocina e Centroamerica suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico di droga afgana in maniera più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi quei casi gli aerei Cia trasportavano all'estero la droga per conto dei loro alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia della guerra sarà stata scritta, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi".
Narcodollari per salvare le banche in crisi? Antonio Maria Costa, direttore generale dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e la Criminalità (Unodc), in un’intervista al settimanale austriaco Profil ha dichiarato: “Il traffico di droga è l'unica industria in espansione. I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto del denaro viene immesso nell'economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Ciò significa introdurre capitale da investimento. Ci sono indicazioni che questi fondi sono anche finiti nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione dalla seconda metà dello scorso anno (a causa della crisi finanziaria globale, ndr).
Il denaro proveniente dal traffico di droga attualmente è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E' ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”.
Veterano della Folgore:"Non chiamatela missione di pace"
di Paolo Rossi, Vicepresidente Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia - Peacereporter - 5 Ottobre 2009
La lettera del vicepresidente dell'associazione nazionale paracadutisti: nelle missioni di pace non operano soldati addestrati ad offendere
Passato il clamore mediatico per i recenti fatti di sangue che a Kabul hanno fatto 6 vittime tra i paracadutisti italiani, premetto che non voglio essere, in questa triste occasione, l'ennesimo giudice o l'ulteriore paladino dell'informazione a commentare quanto accaduto con le solite frasi, tra le quali la più speculata (e forse più odiosa in assoluto): «Non ci sono parole per commentare!». Mi corre però l'obbligo di esternare alcuni pensieri ricorrenti in occasioni come questa, occasioni che purtroppo tendono a riproporsi con sempre maggiore frequenza.
Da uomo, la pietas cristiana per l'uccisione di sei nostri connazionali, militari di professione, senza naturalmente dimenticare le innumerevoli vittime civili, è prevalente su ogni altro sentimento, quale esso possa essere: rabbia, odio, tolleranza, vendetta. La mancata comprensione di quanto passi per la testa di questi sedicenti kamikaze (che nulla hanno, però, a che vedere con i combattenti giapponesi, guidati da regole ferree e da un codice d'onore) ci porta ad un giudizio forse sommario, certamente duro ed intransigente sulle loro azioni.
Da paracadutista, noto come la persistente ipocrisia nel definire la missione in Afghanistan "missione di pace", porti a polemiche di carattere politico che nulla hanno a che vedere con il lavoro che questi nostri commilitoni sono chiamati a svolgere quotidianamente.
Le cosiddette missioni di pace lasciamole a chi, con competenza ed onore, le sappia e le voglia svolgere tra i lebbrosi dell'India, gli aborigeni del Sud America o le popolazioni ridotte alla fame nell'Africa sub-sahariana (ma non solo in questa regione, beninteso). Tra le Associazioni che operano in tale contesto, cito Emergency, la Croce Rossa Internazionale, Medici senza Frontiere e, più prossima a noi, la Caritas, sapendo di dimenticarne ulteriori decine.
Nelle missioni di pace non operano soldati addestrati ad offendere il prossimo, seppure nello specifico contesto chiamati a difendere sé stessi e la popolazione da chi, vigliaccamente, nascondendosi dietro intendimenti religiosi, mira al potere politico e, di conseguenza, economico. Alle missioni di pace non vengono inviati professionisti che si debbano muovere all'interno di mezzi blindati, guardare attorno continuamente puntando un mitragliatore e diffidando di ogni movimento inconsueto o improvviso.
Le missioni di pace non sono caratterizzate da spese logistiche faraoniche, da strategia di difesa e presidio del territorio e della popolazione. Ecco quello che i paracadutisti, ed i militari in generale, detestano, che non venga cioè riconosciuto universalmente il loro impegno professionale in zone di guerra dove si spara, ci si difende, si muore. E' per fare questo lavoro, questo sporco mestiere che, nonostante tutto e tutti, qualcuno deve pur fare, sono stati addestrati, hanno speso sudore e fatica, si sono allontanati dalle loro famiglie.
Il paracadutista, contrariamente a come è stato dipinto nell'immaginario collettivo, è un lavoratore come tanti altri, chiamato ad un lavoro diverso, più pericoloso perché, oltre ai rischi intrinseci dell'attività che svolge deve tener conto dei pericoli derivanti da chi, abbigliato con una cintura esplosiva o alla guida di un'auto-bomba ti si avvicina e si fa saltare insieme a te. E invece? Siamo considerati dei mercenari, dei guerrafondai, dei senza-cuore pronti ad aggredire il prossimo per gli obiettivi di qualche potente. E ciò non è giusto, non è corretto.
L'aspetto che maggiormente mi ha colpito, infine, nei giorni di lutto nazionale, unitamente alle lacrime che scorrevano sui volti dei militari in attesa del C-130 che riportava in Italia le bare dei loro commilitoni, è stato l'orgoglio e la dignità dimostrata dai familiari dei ragazzi uccisi nelle esternazioni pubbliche: interviste, cerimonia funebre, tutto è stato improntato alla sobrietà, al rigore, al ricordo. Parole semplici, cordiali, senza eccessi ne' polemiche, che però lasciavano trasparire un sentimento di appartenenza ad un Valore più grande di tutti noi, ad una famiglia che, nel bene e nel male, ci accoglie sempre.
Questo sentimento l'ho potuto leggere nei volti di ciascuno dei familiari dei paracadutisti caduti incrociati alla triste cerimonia nella basilica di S. Paolo fuori le mura, ma è condiviso anche da chiunque abbia un congiunto impegnato in luoghi dove si combatte, Alpino, Bersagliere o Paracadutista che esso sia.
Grazie, mamma e papà, per averci cresciuti in questo modo, per averci insegnato a credere negli ideali, nei valori più sani della nostra società, nell'amicizia e nel cameratismo (nel senso meno politico e politicizzato del termine), nel soccorso a chi è più debole ed indifeso, nella solidarietà. Dai vostri volti, dai vostri occhi, con le vostre lacrime, in questi tristi giorni ci avete mostrato che non vi abbiamo delusi.
da Peacereporter - 5 Ottobre 2009
Una speciale unità per la 'gestione del lutto', incaricata di pianificare e controllare il comportamento dei familiari delle vittime durante ogni fase dei funerali di Stato. Per evitare che le famiglie si abbandonassero a reazioni 'scomposte' di rabbia, indignazione, disperazione proprio nel momento in cui tutta l'Italia li osservava in televisione.
Così come 'programmata', o particolarmente curata in alcuni dettagli-chiave che si sapeva avrebbero avuto un forte impatto mediatico, sarebbe stata anche l'accoglienza del figlio di una delle vittime, che all'aeroporto attendeva la bara del padre con un basco in testa. A denunciare l'esistenza di una tale equipe speciale è un parroco genovese, don Paolo Farinella, sulla base di informazioni ricevute da una fonte 'fidata'.
Che ai funerali dei militari morti a Kabul il mese scorso l'immagine dei bambini (uno in attesa dell'aereo col basco amaranto in testa, l'altro che si piega sulla bara del padre col medesimo berretto della Folgore sul capo) abbia suscitato qualche indignazione era cosa nota.
Più per l'uso abietto e sconsiderato che ne hanno fatto i media, spettacolarizzando e sensazionalizzando i due bambini in totale spregio alla Carta di Treviso (che tutela il minore proprio perchè 'persona in divenire,') che per il gesto in se'. Quest'ultimo, è stato detto', trova la propria ragion d'essere nell'appartenenza dei familiari al medesimo 'spirito di corpo' e nell'adesione agli stessi valori e ideali che permeano il reparto della Folgore. Maturare nell'humus culturale e comportamentale di un parà può significare anche questo, in aggiunta a una buona dose di ideologia del sacrificio e retorica dell'eroe.
Tuttavia, Padre Farinella sostiene che - secondo la sua fonte - "buona parte di questo personale non è specializzata in psicologia, ma è un corpo speciale che ha un obiettivo preciso: la gestione dei giorni successivi alla morte e il contenimento o meglio l'annullamento della rabbia, della contestazione e della disperazione conseguenti che potrebbero portare a comportamenti di indignazione verso l'esercito e le istituzioni".
In alcune lettere inviate al sacerdote, la fonte di Farinella, che spiega di aver vestito un'uniforme 'molto simile a quella dei caduti', e si dichiara 'uno che ha avuto un poco di esperienza di certe cose', scrive: "I parenti delle vittime erano 'assistiti' da simpatici e giovani militari di varie mostrine ma con in comune un certo distintivo (che qualche geniaccio non ha pensato di far levare) che una volta si chiamava Resupstat (reparto supporto psicologico tattico).
Gente questa con qualifiche molto poco militari ed addestratissima in strane incombenze tra le quali evitare per esempio che qualche mamma o moglie venga fuori in mondovisione con discorsi simili a quelli della vedova Schifani a Palermo nel '92 (...). Temo che la bella bensata del basco amaranto si debba ad uno di questi 'esperti' (...). Militarmente parlando, la cosa è pure un insulto perché, anche volendo a tutti i costi farla, hanno tolto il fregio. Particolare questo insignificante per i profani, ma di enorme importanza per i folgorini, in quanto di palese malaugurio (...). Il colonnello Milani padre (la fonte si riferisce al padre di Benito Milani, comandante del distaccamento del 186esimo reggimento paracadutisti 'Folgore') era contrarissimo a livello di tribunale militare solo ad esprimere idee di questo genere (...)".
Tornando a parlare del 'Reparto di supporto psicologico tattico', la fonte continua: "(...) Credo di non rivelare alcun segreto militare, dicendole che aveva sede a Verona (...) Mica segreto appunto perché vi era tanto di targa sulla pubblica via (...) si distinguevano per un certo distintivo che appunto ho riconosciuto su parecchi militari che assistevano i parenti delle vittime. Avevano mostrine di tutti i corpi e servizi (...) avevano tutti una formazione superiore e non militare salvo i medici che venivano tutti dalla scuola di Firenze, i sottufficiali erano certamente tutti diplomati. Si occupavano di propaganda in tutte le sue forme, inclusa quella un po' atipica che alcuni chiamano disinformazione, gestione del consenso o disturbo delle comunicazioni pubbliche".
PeaceReporter ha contattato il capitano Isabella Lo Castro, ufficiale psicologo, responsabile per l'Esercito del coordinamento dell'intervento di supporto alle famiglie di caduti, per chiederle se la denuncia di padre Farinella e le rivelazioni della fonte militare abbiano fondamento.
"Smentisco categoricamente che esista una unità segreta o speciale dedicata a orientare o pilotare la volontà dei familiari delle vittime. Non li obblighiamo a fare nulla - spiega Lo Castro -. Noi seguiamo le famiglie rispettandone le loro volontà. In un momento del genere, in cui le reazioni delle famiglie sono soggette alle reazioni più varie, e sono reazioni umane, sottolineamolo, sarebbe inopportuno orientarle o guidarle nel loro lutto. Non ci sogneremmo mai di fermare qualcuno contro la sua volontà. Anche se, per mia esperienza, non è mai capitato di osservare atti violenti, di rabbia, durante i funerali. Esternazioni di dolore molto forti sono rare in momenti pubblici. Noi non aiutiamo a contenere né a reprimere questa rabbia, ma a superarla, eventualmente, nei momenti successivi".
Lei conosce il 'reparto di supporto psicologico tattico'?
No, sono dieci anni che faccio questo lavoro, non l'ho mai sentito.
Crede che durante l'arrivo delle salme e i funerali si sia spettacolarizzato il dolore, in riferimento al comportamento dei figli dei militari caduti?
La scelta di avere presenti i bambini, sia a Ciampino che ai funerali è stata presa dalle famiglie. I bambini sono stati 'gestiti' dalle famiglie. Chiaramente siamo stati loro vicini, verificando prima di tutto che, oltre alle mamme, vi fosse qualcuno dei familiari che potesse stare vicino ai bambini. Gli organi di stampa hanno dato rilievo ad alcuni 'flash', senza considerare l'intero processo. Il figlio del parà che si è avvicinato alla bara del padre lo ha fatto di sua spontanea volontà, io ero di fronte alla bara e posso dirlo. E' stata una reazione individuale. Così come il basco, è stata la famiglia che glielo ha messo in testa. Questi sono bambini che da sempre in famiglia respirano lo spirito di appartenenza alla Folgore. Si crea una comunità, di ideali e di valori comuni, e le famiglie dei militari si conoscono tutte tra loro, e si frequentano spesso. Purtroppo, ripeto, se c'è stata sensazionalizzazione, questa è stata fatta dai giornalisti. Da parte nostra e delle famiglie non vi è alcuna responsabilità.