sabato 10 ottobre 2009

Dollaro USA: the party is over

Qualche giorno fa il prezzo dell'oro ha toccato il massimo storico a 1.043,78 dollari l'oncia sul mercato di New York, grazie soprattutto all'indebolimento del dollaro in seguito alla decisione dei paesi del Golfo Persico di smettere di utilizzare il biglietto verde per le transazioni petrolifere.

Ormai il ruolo del dollaro come valuta di riferimento è giunto al termine ed è bene che negli USA se ne facciano una ragione, visto che questo comporterà anche grandi cambiamenti nei rapporti di forza a livello geopolitico.

Per il dollaro, come unica valuta di riferimento globale, ma soprattutto per gli USA come unica superpotenza mondiale la festa è finita anche se si sta cercando con tutti i mezzi di farla durare il più possibile.

Gli invitati però se ne stanno già andando via.


Una rivoluzione finanziaria con profonde implicazioni politiche
di Robert Fisk - The Independent - 7 Ottobre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

Movimenti finanziari di così ampia portata avranno importanti effetti politici in Medio Oriente

Il piano di “sdollarizzare” il mercato del petrolio discusso sia pubblicamente che in segreto da almeno due anni e ampiamente negato ieri dai soliti sospetti – prima tra cui, come ci si poteva aspettare l’Arabia Saudita – riflette l’aumento del risentimento in Medio Oriente, in Europa e in Cina per le decadi di predominio politico ed economico mondiale dell’America.

In nessun altro luogo ciò ha maggiore importanza simbolica che in Medio Oriente, dove solo gli Emirati Arabi detengono $900 bilioni di riserve di dollari e dove l’Arabia Saudita ha tranquillamente coordinato la propria difesa, gli armamenti e le sue politiche del petrolio con i Russi dal 2007.

Questo non indica una guerra commerciale contro l’America – non ancora – ma da molti anni i regimi del Golfo Arabo sono diventati sempre più insofferenti alla dipendenza politica da Washington. Dei $7,2 trilioni di dollari di riserve internazionali, $2,1 trilioni di dollari sono dei paesi arabi – la Cina ne possiede circa $2,3 trilioni – e si crede che tutte le nazioni interessate a discostarsi dal commercio del petrolio in dollari detengano oltre l’80 per cento delle riserve di dollari internazionali.

I banchieri arabi hanno considerato le negazioni dell’Arabia Saudita in merito a tali ambizioni come una parte normale delle politiche del Golfo. I Sauditi, certamente, sono riusciti a negare che l’Irak avesse invaso il Kuwait nel 1990 – persino quando le legioni di Saddam Hussein erano dispiegate lungo la frontiera saudita, fino a quando gli Stati Uniti hanno annunciato al mondo la notizia dell’aggressione dell’Irak.

I banchieri sauditi sono ben consapevoli che tra nove anni – l’attuale spazio di tempo per una transizione dal dollaro nel commercio del petrolio alle valute giapponesi e cinesi, all’euro, all’oro e ad una possibile nuova valuta del Golfo – la Cina avrà raddoppiato il suo reddito nazionale fino a $10 trilioni di dollari (presumendo un tasso di crescita del 7 per cento), e a questo punto gli USA non potrebbero detenere più del 20 per cento del reddito mondiale lordo.

Dei movimenti finanziari così massicci, incoraggiati dalla “sdollarizzazione” del petrolio avranno enormi effetti politici in Medio Oriente, particolarmente se la rivalità di superpoteri tra l’America e la Cina arriverà a dominare il mondo arabo. Israele potrà ancora far affidamento sul sostegno economico dell’America tra nove anni se saranno la Cina e gli Arabi a determinare l’andamento dei mercati finanziari globali? Certo – forse pensando a questo – negli ultimi due anni alcuni finanzieri israeliani hanno espresso interesse per gli investimenti non in dollari di banche arabe. Ogni qual volta che ha luogo un cambiamento di tale portata per un certo numero di anni deve essere iniziato in segreto.

E non può essere neanche negato che il progetto stesso di sottrarre il commercio del petrolio al dollaro abbia profonde radici politiche. Il crollo dell’Unione Sovietica ha permesso agli USA di dominare il Medio Oriente più di qualunque altra regione del mondo, e gli Arabi – che non possono più contemplare un boicottaggio del petrolio del tipo che hanno imposto all’Occidente dopo la guerra in Medio Oriente del 1973 – sono ancora ansiosi di provare che possono esercitare il loro potere economico per effettuare dei cambiamenti.

L’offerta panaraba dell’Arabia Saudita di riconoscere Israele e la sua sicurezza in cambio del ritiro di Israele dalle terre arabe occupate non è - secondo gli stessi Sauditi - indefinita. Se saranno ignorati o respinti potranno cercarsi altri alleati attraverso nuove istituzioni finanziarie per imporre una nuova pace nel Medio Oriente. La Cina sarà contenta di aiutare.


L'isteria sul dollaro
di Mike Whitney - http://counterpunch.org - 6 Ottobre 2009

Robert Fisk ha dato fuoco alle polveri con il suo trafelato racconto che compare sul quotidiano britannico The Independent di martedì che da un giorno all’altro si è diffuso come un virus in ogni angolo ammuffito di Internet e ha mandato alle stelle la quotazione dell’oro a 1.026 dollari l’oncia.

Qualunque sito web da giorno del giudizio ha messo in evidenza il resoconto sensazionale di Fisk e i blog sono intasati dagli irrefrenabili commenti di coloro che si preparano alla catastrofe rinchiudendosi in un bunker e dei personaggi che investono in oro che sono sicuri del fatto che il mondo, così per come lo conosciamo, sta per finire.

Dall’articolo di Fisk:
“Mettendo in atto la più radicale trasformazione finanziaria della recente storia del Medio Oriente gli Stati arabi stanno pensando – insieme a Cina, Russia, Giappone e Francia – di abbandonare il dollaro come valuta per il pagamento del petrolio adottando al suo posto un paniere di valute tra cui lo yen giapponese, lo yuan cinese, l’euro, l’oro e una nuova moneta unica prevista per i Paesi aderenti al Consiglio per la cooperazione del Golfo, tra cui Arabia Saudita, Abu Dhabi, Kuwait e Qatar.” “Incontri segreti hanno già avuto luogo tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali della Russia, della Cina, del Giappone e del Brasile per mettere a punto il progetto che avrà come conseguenza il fatto che il prezzo del greggio non sarà più espresso in dollari.”

“Gli americani, che sono al corrente degli incontri – pur non conoscendone i dettagli – sono certi di poter sventare questo intrigo internazionale di cui fanno parte leali alleati come il Giappone e i Paesi del Golfo. Sullo sfondo di questi incontri valutari, Sun Bigan, ex inviato speciale della Cina in Medio Oriente, ha sottolineato il rischio di approfondire le divisioni tra Cina e Stati Uniti in ordine alla loro influenza politica e petrolifera in Medio Oriente. “Le dispute e gli scontri bilaterali sono inevitabili”, ha detto all’Africa and Asia Review. “Non possiamo abbassare la guardia in merito all’ostilità che fronteggiamo in Medio Oriente sugli interessi energetici e la sicurezza.”
“Intrigo internazionale”? Andiamo Fisk, sai fare di meglio.

I rapporti sulla morte del dollaro sono ampiamente esagerati. Il dollaro potrebbe svalutarsi, ma non crollerebbe. E, nel breve termine, è destinato a rafforzarsi mentre il mercato dei capitali rientra nel campo gravitazionale terrestre dopo un viaggio di 6 mesi nello spazio cosmico.

Il rapporto tra le azioni in calo e un biglietto verde più forte è ben radicato e, quando il mercato si rimetterà in sesto, il dollaro rimbalzerà ancora una volta. Potete scommetterci. Allora che cosa sono tutte queste sciocchezze sui mediorientali che tengono degli “incontri segreti” lisciandosi la barba mentre tramano contro l’impero? Non è questo il succo dell’articolo di Fisk?

Sì, il dollaro (alla fine) si svaluterà ma non per i motivi che crede la maggior parte della gente. E’ vero che l’aumento della spesa pubblica in disavanzo preoccupa chi possiede dei dollari. Ma questi sono più preoccupati del programma di alleggerimento quantitativo della Fed che fa aumentare l’offerta monetaria acquistando titoli garantiti da mutui immobiliari e Buoni del Tesoro.

Bernanke sta semplicemente stampando moneta e la sta riversando nel sistema finanziario per impedire l’arrivo del rigor mortis. Ovviamente la Fed ha dovuto determinare con esattezza la quantità di denaro che intende “creare dal nulla” per calmare i propri creditori. E lo ha fatto. (Il termine del programma è stato fissato per l’inizio del 2010). Detto questo, la Cina e il Giappone stanno ancora acquistando Buoni del Tesoro americano, il che indica che non hanno ancora ”abbandonato la nave.”

La vera ragione per cui il dollaro perderà il suo ruolo di valuta di riserva mondiale è che i mercati americani, che fino a poco tempo fa fornivano fino al 25 per cento della domanda globale, sono in forte calo. Le nazioni che dipendono dalle esportazioni – come Giappone, Cina, Germania e Corea del Sud – stanno già prevedendo il peggio. I consumatori americani sono sommersi da una montagna di debiti, il che significa che le loro spese folli non riprenderanno molto presto.

Inoltre la disoccupazione sta aumentando, le ricchezze personali stanno diminuendo, i risparmi sono in crescita e l’orientamento di Washigton contro gli interessi dei lavoratori garantisce che i salari continueranno a ristagnare nel prossimo futuro. Perciò, la classe media americana non sarà più la forza trainante dietro al consumo/domanda globale che era prima della crisi.

Quando i consumatori avranno maggiori difficoltà a comprare una nuova Toyota Prius o riempirsi degli ultimi gingilli fatti in Cina da Walmart, i governi e le banche centrali straniere saranno meno incentivati ad accumulare biglietti verdi o a trattare esclusivamente in dollari.

Ecco un estratto da Globe and Mail riportato dal Washington’s Blog:
“Un rapporto di UBS Investment Research rivela che, mentre sarebbe sbagliato eliminare il dollaro americano come valuta di riserva globale, la sua morsa d’acciaio che dura da circa 90 anni si sta allentando. ‘L’utilizzo del dollaro americano come valuta di riserva internazionale è in diminuzione’, sostiene l’economista di UBS Paul Donovan.” “’La quota di mercato del dollaro nelle transazioni internazionali probabilmente diminuirà nei prossimi mesi e nei prossimi anni, ma solo dei continui errori da parte della politica – o un’ingente pressione fiscale – potrebbero forse far perdere del tutto al dollaro il suo status di valuta di riserva.’” “Il rapporto di UBS sostiene che il progressivo slittamento del dollaro americano non è guidato dalle banche centrali mondiali ma dal settore privato perché le singole aziende stanno abbandonando sempre più il biglietto verde come loro valuta internazionale di fiducia.” “’L’utilizzo delle riserve da parte del settore privato è più importante delle riserve ufficiali delle banche centrali – un’importanza fino a 20 volte maggiore, a seconda delle interpretazioni,’ ha detto Donovan. ‘Ci sono chiari segnali che l’abbandono del dollaro come valuta di riserva da parte settore privato abbia subito un’accelerazione dal 2000.’”

Quando l’industria privata abbandonerà il dollaro, verrà imitata anche dai governi, dagli investitori e dalle banche centrali. La morbida tirannia del dominio del dollaro si sgretolerà e aumenterà la parità tra le valute e i governi. Questo creerà migliori opportunità per ottenere il consenso su questioni di interesse reciproco. Un’unica nazione non potrà più dettare la politica internazionale.

La cosiddetta “egemonia del dollaro” ha aumentato pesantemente il macroscopico sbilanciamento di potere che esiste oggi nel mondo. Ha messo il potere decisionale a livello globale nelle mani di un manipolo di signori della guerra a Washington la cui visione ristretta non va mai oltre il proprio tornaconto materiale e quello dei loro elettori. Mentre il dollaro si indebolisce e la domanda dei consumatori scende, gli Stati Uniti saranno costretti a ridurre le loro guerre e a rivedere il proprio comportamento per adeguarsi agli standard internazionali. O ci si adegua, o saranno ricacciati nell’oblio. Allora, qual è esattamente il lato negativo?

Lo status di superpotenza fa affidamento sulle fragili fondamenta del dollaro, e il dollaro sta iniziando a scricchiolare. Fisk ha ragione su questo aspetto, sono in arrivo dei grossi cambiamenti. Ma non ora.


Sta per arrivare la morte del dollaro
di Robert Fisk - www.independent.co.uk - 6 Ottobre 2009
Traduzione a cura di Carlo Antonio Biscotto

Quasi a simboleggiare il nuovo ordine mondiale, gli Stati arabi hanno avviato trattative segrete con Cina, Russia e Francia per smettere di usare la valuta americana per le transazioni petrolifere.

Mettendo in atto la piu’ radicale trasformazione finanziaria della recente storia del Medio Oriente gli Stati arabi stanno pensando – insieme a Cina, Russia, Giappone e Francia – di abbandonare il dollaro come valuta per il pagamento del petrolio adottando al suo posto un paniere di valute tra cui lo yen giapponese, lo yuan cinese, l’euro, l’oro e una nuova moneta unica prevista per i Paesi aderenti al Consiglio per la cooperazione del Golfo, tra cui Arabia Saudita, Abu Dhabi, Kuwait e Qatar.

Incontri segreti hanno gia’ avuto luogo tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali della Russia, della Cina, del Giappone e del Brasile per mettere a punto il progetto che avra’ come conseguenza il fatto che il prezzo del greggio non sara’ piu’ espresso in dollari.

Il progetto, confermato al nostro giornale da fonti bancarie arabe dei Paesi del Golfo Persico e cinesi di Hong Kong, potrebbe contribuire a spiegare l’improvviso rincaro del prezzo dell’oro, ma preannuncia anche nei prossimi nove anni un esodo senza precedenti dai mercati del dollaro.

Gli americani, che sono al corrente degli incontri – pur non conoscendone i dettagli – sono certi di poter sventare questo intrigo internazionale di cui fanno parte leali alleati come il Giappone e i Paesi del Golfo. Sullo sfondo di questi incontri valutari, Sun Bigan, ex inviato speciale della Cina in Medio Oriente, ha sottolineato il rischio di approfondire le divisioni tra Cina e Stati Uniti in ordine alla loro influenza politica e petrolifera in Medio Oriente. “Le dispute e gli scontri bilaterali sono inevitabili”, ha detto all’Africa and Asia Review. “Non possiamo abbassare la guardia in merito all’ostilita’ che fronteggiamo in Medio Oriente sugli interessi energetici e la sicurezza”.

Questa frase ha tutta l’aria di una previsione pericolosa su una futura guerra economica tra Stati Uniti e Cina per il petrolio mediorientale – con il pericolo di trasformare i conflitti della regione in una lotta di supremazia delle grandi potenze. L’incremento della domanda di petrolio e’ piu’ marcato in Cina che negli Stati Uniti in quanto la crescita cinese e’ meno efficiente sotto il profilo energetico.

Abbandonando il dollaro i pagamenti, stando a fonti bancarie cinesi, potrebbero essere effettuati in via transitoria in oro. Una indicazione della gigantesca quantita’ di denaro di cui si parla puo’ essere desunta dalla ricchezza di Abu Dhabi, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar che insieme hanno, stando alle stime, riserve in dollari per 2.100 miliardi.

Il declino della potenza economica americana strettamente connesso all’attuale recessione globale e’ stato riconosciuto dal presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick. “Una delle conseguenze di questa crisi potrebbe essere l’accettazione del fatto che sono cambiati i rapporti di forza economici”, ha detto a Istanbul prima delle riunioni di questa settimana del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

Ma e’ stato il nuovo straordinario potere finanziario della Cina – non disgiunto dalla rabbia sia dei Paesi produttori che dei Paesi consumatori di petrolio nei confronti del potere di interferenza degli Stati Uniti nel sistema finanziario internazionale – a stimolare i recenti colloqui con i Paesi del Golfo.

Brasile e India si sono mostrati interessati a far parte di un sistema di pagamenti non piu’ basato sul dollaro. Allo stato la Cina appare la piu’ entusiasta tra le potenze finanziarie, non fosse altro che per il suo gigantesco interscambio commerciale con il Medio Oriente.

La Cina importa il 60% del petrolio che consuma, per lo piu’ dal Medio Oriente e dalla Russia. I cinesi hanno concessioni petrolifere in Iraq – bloccate fino a quest’anno dagli Stati Uniti – e dal 2008 hanno un accordo da 8 miliardi di dollari con l’Iran per lo sviluppo delle capacita’ di raffinazione e delle risorse di gas. La Cina ha contratti petroliferi in Sudan (dove ha sostituito gli Stati Uniti) e da tempo sta negoziando concessioni petrolifere in Libia dove tradizionalmente questo genere di accordi e’ del tipo joint venture.

Inoltre le esportazioni cinesi verso la regione ammontano ora a non meno del 10% delle importazioni di tutti i Paesi del Medio Oriente e includono una vasta gamma di prodotti che vanno dalle automobili agli armamenti, ai generi alimentari, al vestiario e persino alle bambole.

Riconoscendo esplicitamente il crescente peso finanziario della Cina, il presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, ha chiesto l’altro ieri a Pechino di consentire alla yuan di apprezzarsi sul dollaro e, di conseguenza, di diminuire la dipendenza della Cina dalla politica monetaria americana contribuendo cosi’ a riequilibrare l’economia mondiale e ad alleggerire la pressione al rialzo sull’euro.

Dagli accordi di Bretton Woods – gli accordi conclusi dopo la seconda guerra mondiale che ci hanno tramandato l’architettura del moderno sistema finanziario internazionale – i partner commerciali degli Stati Uniti hanno dovuto affrontare le conseguenze della posizione di controllo di Washington e, negli anni piu’ recenti, dell’egemonia del dollaro in quanto principale valuta di riserva.

I cinesi credono, ad esempio, che siano stati gli americani a convincere la Gran Bretagna a non entrare nell’euro per impedire una fuga dal dollaro. Ma secondo le fonti bancarie cinesi i colloqui sono andati troppo avanti per poter essere bloccati. “Non e’ da escludere che nel paniere delle monete entri anche il rublo”, ha detto un importante broker di Hong Kong all’Indipendent. “La Gran Bretagna e’ presa in mezzo e finira’ per entrare nell’euro. Non ha scelta in quanto non potra’ piu’ usare il dollaro americano”.

Le fonti finanziarie cinesi sono convinte che il presidente Barack Obama sia troppo occupato a rimettere in piedi l’economia americana per concentrarsi sulle straordinarie implicazioni della transizione dal dollaro ad altre valute nel volgere di nove anni. Al momento la data fissata per l’abbandono del dollaro e’ il 2018.

Gli Stati Uniti hanno fatto appena cenno a questo problema in occasione del G20 di Pittsburgh. Il governatore della Banca centrale cinese e altri funzionari da anni sono preoccupati per la situazione del dollaro e non ne fanno mistero. Il loro problema e’ che gran parte della ricchezza nazionale e’ in dollari.

“Questi progetti cambieranno il volto delle transazioni finanziarie internazionali”, ha detto un banchiere cinese. “Stati Uniti e Gran Bretagna debbono essere molto preoccupati. Vi accorgerete di quanto sono preoccupati dalla pioggia di smentite che questa notizia scatenera’”.

Alla fine del mese scorso l’Iran ha annunciato che le sue riserve in valuta estera saranno in futuro in euro e non in dollari. I banchieri ricordano, naturalmente, quanto e’ capitato all’ultimo Paese produttore di petrolio del Medio Oriente che ha tentato di vendere il petrolio in euro e non in dollari. Pochi mesi dopo che Saddam Hussein aveva comunicato la sua decisione ai quattro venti, gli americani e gli inglesi hanno invaso l’Iraq.


Quel nuovo ordine mondiale pronto a far fuori gli Usa
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 8 Ottobre 2009

Alla fine, le maestrine di Bruxelles hanno portato a compimento il loro compitino. Sono partite, infatti, le procedure per deficit eccessivo nei confronti dell'Italia e di altri otto Paesi Ue che sforeranno il 3% nel rapporto deficit-Pil. «In questi nove Paesi gli squilibri non sono né prossimi al valore di riferimento del 3% né temporanei», dice la Commissione Ue. In Italia si attende una ripresa «molto debole nella seconda metà del 2009 che proseguirà probabilmente in maniera lenta».

Accidenti, meno male che ce lo hanno detto! E ancora. «Il pacchetto di misure anticrisi rappresenta un'adeguata risposta alla recessione. Ma l'Italia nel 2009 avrà deficit e debito pubblico troppo elevati, a un livello che non soddisfa i criteri del Trattato Ue», si legge nella nota. Bruxelles rileva, in sintesi, che questa situazione deriva in parte dagli effetti della crisi e in parte da altri fattori strutturali, tra cui una spesa pubblica che resta elevata.

Il deficit - si legge - programmato dal governo italiano al 5,3% «va oltre e non è prossimo al valore di riferimento del 3% e sebbene possa essere considerato come eccezionale, non può essere considerato temporaneo». Il debito, poi, programmato al 115,1% del Pil nel 2009, per la Commissione Ue «non diminuisce in maniera sufficiente, con un andamento verso il valore di riferimento non soddisfacente». Oltre all'Italia, le procedure per deficit eccessivo riguardano Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Germania, Slovacchia, Slovenia, Olanda e Portogallo. Praticamente tutti.

Come anticipato, i ragionieri dell'Unione hanno emesso il loro verdetto: va bene così, il problema dell'Italia non è certo l'eccezionalità del momento dovuta dalla crisi, ma la cronica incapacità di riforme che vedrà il debito andare ben oltre le previsioni e sfondare quota 120%. Gli Stati, insomma, cominciano a pagare il conto al diluvio di soldi gettati nel sistema bancario per mantenerlo artificialmente in vita e ora si attrezzano, chi più chi meno, per tamponare l'ondata di disoccupazione che colpirà Eurolandia da adesso alla prossima primavera.

Certo, i governi hanno le loro colpe e negarlo sarebbe assurdo. C'è però qualcosa di più grave che sta accadendo là fuori nel silenzio compiacente di media e cosiddetti regolatori: l'assalto alla diligenza che porterà a una possibile nuova ondata di crisi finanziaria con l'inizio del nuovo anno. Anche il vate Nouriel Roubini, l'altro giorno, ha constatato come il rally borsistico che abbiano vissuto da marzo a oggi sia stato essenzialmente frutto del «muro di liquidità» fornito dai governi e dalle altre varie entità istituzionali ai mercati.

Si chiedeva ieri il sito Cnbc: «Cosa sarà dell'azionario quando le politiche di stimolo finiranno?». Difficile dirlo con esattezza, la sola cosa chiara è che dobbiamo attenderci una correzione dei corsi almeno del 20% e questo potrebbe colpire non poco i settori più esposti, primo fra tutti quello bancario. Su cui, invece, invita gli investitori a scommettere Bank of America-Merrill Lynch nel suo ultimo report.

Sì, avete capito bene: in un periodo in cui i gestori e i broker seri cominciano a comprare difensivo, Merrill invita a gettarsi sul ciclico e in particolare sul bancario. Il perché è presto detto: le performance ottenute in questi mesi di rally. Come siano state ottenute, cari lettori, lo sapete bene perché ne abbiamo già diffusamente parlato.

Qualcosa non va: prima Morgan Stanley che raddoppia senza motivo il target price di Fiat pur sapendo che i soli, potenziali incentivi di Stato non saranno sufficienti a superare la bufera che il mercato auto patirà da questo mese in poi; dopo Merrill Lynch che invita a gettarsi non solo sull'azionario ma addirittura sul settore più fragile e a rischio in assoluto. Una cosa è vera, sul breve si possono fare bei soldi ma quel report non si intitola “prendi i soldi e scappa”, è un upgrading del settore perché lo si vede ormai fuori dal tunnel e decisamente in salute.

È questa la cosa grave, il fatto che questa crisi non abbia insegnato nulla ai suoi principali protagonisti e responsabili. Anche perché, stando al giudizio di Michael Pento della Global Delta Advisors, «una nuova, grande bolla è già stata creata mentre si stava cercando di porre rimedio a quella precedente, ed è la bolla del debito americano. Quando questa esploderà - ed esploderà di certo - non ci sarà più nessuno in grado di salvarci come ha fatto fino ad oggi il governo. Stiamo tutti preparandoci al peggior scenario possibile».

Già, perché come rivelava Robert Fisk sull'Independent, si sarebbero già tenuti incontri segreti tra ministri delle Finanze e governatori delle Banche Centrali di Russia, Francia, Cina, Giappone e Brasile per lavorare insieme a un progetto a dir poco rivoluzionario: pagare il greggio non più in dollari ma attraverso un paniere di monete che comprenderebbe lo yen e lo yuan cinese, l’euro e l’oro.

I Paesi arabi petroliferi - il Consiglio di Cooperazione del Golfo, che comprende Arabia Saudita, Kuweit, Dubai e gli Emirati - sono stati messi al corrente del piano e avrebbero accettato: anzi, starebbero approntando una loro moneta comune da far entrare nel paniere. La diversificazione degli investimenti, ad esempio quella cinese, sta già erodendo la forza del dollaro, il quale paga con una debolezza terribile i tassi quasi a zero, il debito esterno e il debito pubblico che sta schizzando al 100% sul Pil. Trattare anche il petrolio con altre valute significa distruggere l'egemonia del biglietto verde e piegare gli Usa.

Alla Bce, meglio tardi che mai, se ne sono accorti e fanno sapere che «il problema non è il tasso di cambio del dollaro con l'euro ma la relazione tra il dollaro e alcune valute asiatiche, tanto per citarne una lo yuan cinese». Siamo al mismatch tra il vecchio blocco di potenze - Usa, Europa e Giappone - contro i paesi emergenti che necessitano di valute forti per riflettere il loro dinamismo e la loro capacità di crescita. La questione, qui, è un nuovo ordine mondiale alle porte. Non la procedura d'infrazione dell'Ue.



Quella bomba made in Usa che minaccia la ripresa
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 9 Ottobre 2009

Finalmente una buona notizia dagli Usa. Calano ai minimi da nove mesi le domande di nuovi sussidi di disoccupazione: nell'ultima rilevazione settimanale conclusa il 3 ottobre scorso, il numero di richieste è sceso di 33mila unità a 521mila rispetto al precedente livello di 554mila. Il dato è decisamente migliore di quanto stimassero gli analisti che prevedevano una flessione a 540 mila unità: si tratta del numero più basso di domande dal 3 gennaio scorso, quando ammontarono a 488mila.

Il problema è che questi dati servono a ringalluzzire i futures e far partire bene l'indice Dow Jones, non a offrire segnali di sistema rispetto a una ripresa. Mentre infatti Goldman Sachs emette il suo ennesimo report, questa volta decisamente corposo, in cui lancia la sfida agli investitori promuovendo e magnificando le opportunità del settore M&A - fusioni e acquisizioni - dalla Fed di Atlanta arriva un inquietante avviso ai naviganti.

Anche in questo caso con un report ripreso solo da Wall Street Journal e Cnbc, un analista ha tentato una simulazione per stimare l’effetto del ritardo con il quale le banche statunitensi fanno emergere le proprie perdite. Beh, il risultato fa venire la pelle d'oca: nel comparto dei mutui commerciali, infatti, si anniderebbe una vera e propria bomba che non è ancora emersa per la natura stessa di buona parte di questi mutui, definiti “interest-only loans” proprio perché il debitore, per un periodo determinato, ripaga gli interessi e non la somma ricevuta.

Al di là del porre sotto la lente d'ingrandimento il grado di tecnicalità truffaldina con cui le banche hanno evitato di inserire nei bilanci le perdite relative ai titoli tossici che hanno come sottostante questa categoria di mutui, il documento della Fed di Atlanta ha stimato che le perdite delle banche sui mutui commerciali dovrebbero esplodere letteralmente l’anno prossimo: le dimensioni di questa parte del mercato del mortgage statunitense sono enormi e per le banche la perdita sarebbe valutabile, sempre secondo il report, in poco meno di 7mila miliardi di dollari.

Evviva, le banche sono sanissime e bisogna investire sul ciclico, come ci ricordava l'altro giorno Bank of America-Merrill Lynch. Siamo alla follia, nemmeno più tanto lucida: il timore di nuove regole e minore possibilità di speculazioni abnormi sta facendo impazzire come mosche in un barattolo i grandi fondi e i grandi investitori.

Non a caso l'oro continua il suo rally - ormai si parla di quota 1.500 dollari l'oncia entro Natale - grazie proprio all'attivismo degli hedge funds oltre che per la debolezza del dollaro. Schizza alle stelle il bene rifugio per antonomasia e la gente dice di investire sul ciclico invece che sul difensivo: mah, ancora una volta tocca constatare che la crisi non ha insegnato nulla.

Da parte nostra, il fatto che ieri il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, abbia invitato le banche a completare il riordino dei bilanci non è segnale che fa stare tranquilli, ma non ditelo all'Abi perché si offendono tremendamente.

In compenso le banche centrali mantengono i tassi pressoché a zero e la Bank of England annuncia che proseguirà il suo programma di iniezione di capitali nel mercato stampando moneta: certo, la cosiddetta ripresa va sostenuta, ma in questo modo non si fa altro che creare una bolla di liquidità che vedrà il debito schizzare alle stelle, esattamente come sta accadendo negli Stati Uniti.

Basta ascoltare le parole pronunciate ieri da Jean-Claude Trichet per capire quanto si stia navigando a vista anche nei piani alti della Bce: «I tassi attuali sono adeguati. In settembre è stato confermato un indice negativo dell'inflazione, mentre nei prossimi mesi tornerà leggermente positivo. Tutto ciò ci dice che l'economia della zona euro sta gradualmente recuperando. Le informazioni più recenti confortano ulteriormente la valutazione del consiglio direttivo e l'economia dell'area dell'euro si sta stabilizzando e dovrebbe segnare una graduale ripresa. Permangono tuttavia notevoli incertezze». Insomma, tutto e il contrario di tutto.

Di fatto, l'unico paese che può parlare in effetti di ripresa è l'Australia, la cui banca centrale l'altro giorno ha aumentato i tassi di interesse e ha annunciato nuovi rialzi del costo del denaro come primo passo della cosiddetta exit strategy dalla crisi. A settembre il governo di Canberra ha rilevato la creazione di 40.600 nuovi posti di lavoro, laddove gli analisti prevedevano 10mila nuovi disoccupati: il tasso di disoccupazione è quindi sceso al 5,7% dal 5,8% di agosto. Immediata è giunta la risposta dei mercati: il dollaro australiano è salito a un nuovo massimo di 14 mesi sul dollaro Usa e la borsa di Melbourne ha chiuso ai massimi di un anno, in rialzo dell'1,6% a 4.768,6 punti.

Certo, laggiù non sanno cosa sia il debito e hanno una possibilità di intervento e operatività ben diversa da quella dell'Eurozona, ma ritengo che sia necessario cominciare a pensare a una politica di leva sui tassi: tutto questo denaro a costo zero sta cominciando a diventare un rischio grande, troppo grande a fronte della fragilità strutturale della maggior parte dei paesi.

Occorre essere onesti e dire le cose come stanno: finché le banche non faranno ordine e poi pulizia nei loro bilanci, quantificando davvero il totale degli assets tossici che gravano nei loro conti, non si potrà parlare di ripresa né scegliere differenti politiche monetarie da parte delle banche centrali, visto che le immobilizzazioni in titoli e in crediti a rischio sono in larga misura alla base del razionamento dell’offerta di credito a famiglie e imprese, la vera bolla “a venire” che sta minacciando una possibile ripresa. Occorre chiarezza. Subito. Altro che inviti a gettarsi sull'azionario e premiare il comparto bancario.


Finanza usa: così la giostra ricomincia a girare

di Roberto Marchesi - www.rinascita.info - 8 Ottobre 2009

Eravamo in febbraio, faceva freddo anche in Texas in quel periodo, nella Casa Bianca il nuovo inquilino era la grande novità del secolo: il primo presidente americano di colore si era insediato e aveva già cominciato da un mese circa a varare le sue ambiziose riforme. Non solo gli americani, ma tutto il mondo guardava con interesse misto ad ansia, curiosità, o dubbio, alle decisioni che il nuovo capo della superpotenza americana avrebbe preso, non tanto sul fronte delle guerre, ma soprattutto su quello della gravissima crisi finanziaria che aveva ormai portato le economie di tutto il mondo industrializzato nel pieno di una gravissima recessione, la seconda in questo decennio.

Prometteva bene Obama in quei giorni. Le sue dichiarazioni e le sue espressioni scandalizzate in riferimento ai bonus milionari (in dollari ovviamente) che gli speculatori si apprestavano ad incassare nonostante le voragini che avevano lasciato nei bilanci delle banche di cui erano amministratori, facevano sperare davvero che il nuovo comandante in capo avrebbe finalmente voltato pagina.

E tuttavia c’era già nell’aria qualcosa che non faceva presagire nulla di buono, qualcosa che forse vale la pena di rileggere oggi: (dal mio articolo del 15 febbraio “La tigre capitalista mostra gli artigli”) “Si accusa Geithner di non aver dato, nella presentazione della manovra (avvenuta pubblicamente mercoledì 11 febbraio), sufficienti dettagli al contenuto della manovra stessa.

Ma un tonfo di oltre il 4% dell’indice Dow Jones, iniziato quando Geithner aveva appena cominciato a parlare, sembra in ogni caso eccessivo, e probabilmente nasconde molto di più che semplici motivi tecnici di trasparenza”.

Infatti avevo visto giusto, non era la mancanza di trasparenza a dar fastidio ai padroni della borsa, ma esattamente il contrario, e cioè, i marpioni del credito e dell’alta finanza, da quel poco che era stato detto, avevano già capito che stava arrivando una purga, e volevano subito far capire che su quel terreno il coltello dalla parte del manico ce l’avevano loro, e potevano usarlo per far del male.

Geithner, che era sostanzialmente uno di loro, dato che prima di diventare segretario del Tesoro americano era già il responsabile della Federal Reserve di New York (vale a dire Wall Street), ha capito bene il messaggio e ha preferito evitare di imbarcarsi in un confronto totale che lo avrebbe sicuramente visto soccombere, coinvolgendo nella disavventura anche lo stesso Obama.

Così è iniziata la lunga trattativa per avviare un opera di risanamento nel campo della finanza che non desse troppo fastidio all’establishment (trattativa comunque tenuta sotto tono anche a causa della contemporanea riforma della Sanità americana, ben più popolare e seguita dai media).

Il “risanamento” è cominciato a primavera, con un importante provvedimento normativo che ha consentito alle banche di abbellire artificiosamente i propri bilanci ingolfati dalla spazzatura finanziaria proveniente dalla bolla speculativa. Nessuno più voleva comprare quei titoli, perciò il loro valore, in base alla regola del “mark to market” rimaneva schiacciato ai valori minimi delle ultime contrattazioni.

Il nuovo provvedimento ha consentito (nella maggior parte dei casi) di aggirare la regola e valutarli invece al prezzo di acquisto (o un prezzo intermedio) facendo perciò fare un balzo insperato al valore delle rimanenze. Da qui gli utili favolosi registrati a giugno, che però hanno funzionato come un’autentica droga sulle borse, che hanno visto in questo un segnale di ripresa. Che ovviamente non era una vera ripresa, ma una ripresa drogata. Tuttavia, in apparenza, decisamente cospicua, con una buona risalita di tutti gli indici.

Ma se quell’espediente era bastato a riavviare, in generale, le trattazioni di borsa, non poteva però essere sufficiente a convincere qualcuno a comprare quei titoli spazzatura, i quali erano sì valorizzati a bilancio a dieci dollari, ma nessuno era disposto a spendere più di tre o quattro dollari per comprarli. Quindi il comparto dei derivati finanziari rimaneva bloccato e bisognava sbloccarlo per avviare una vera ripresa, anche se da qualche mese di quel problema non se ne parlava più, distratti forse dai mirabolanti risultati trimestrali registrati in giugno dalle principali banche Usa.

Eppure sul piano finanziario era proprio il problema più grave, perché c’era da smaltire una voragine di 2,8 trilioni (ovvero duemilaottocento miliardi di dollari) di spazzatura finanziaria in giro per il mondo, derivanti dalla cartolarizzazione dei mutui e da altri eccessi simili. E quelli sono ancora tutti lì, intatti, nei portafogli delle banche, in attesa di coraggiosi investitori che li comprino. Solo liberandosene le banche potrebbero prendere di nuovo il volo senza le stampelle governative.

Già, ma nessuna stampella governativa né americana né europea è capace di sostenere il peso di 2800 miliardi di dollari di porcheria finanziaria travestita da beni d’investimento.
Ecco che allora il governo americano ha predisposto a questo proposito un piano di intervento denominato Ppip (Public-Private Investment Program), facente parte di quell’aiuto di Stato di 700 miliardi che già lo scorso anno (con Bush ancora presidente) aveva stanziato per evitare il tracollo generale.

Ma ora di quei soldi non è rimasto già quasi più niente e l’importo destinato al Ppip è di appena 12 miliardi di dollari, a cui si aggiungono altri 6.13 miliardi di garanzie disponibili dallo Stato.

Ma un punch di meno di 20 miliardi di aiuti statali è sufficiente a far digerire un groppo sullo stomaco di circa 2800 miliardi? Pare difficile! Eppure fonti governative sostengono invece di sì, perché anche se è poco, dicono, sarà tuttavia sufficiente a fissare nel mercato un prezzo che sarà superiore a quelli attuali, e quindi a riavviare le contrattazioni su questi titoli, e pertanto a fissare per tutti gli stessi titoli una quotazione maggiore.

Sembra quasi l’uovo di Colombo! Se ho ben capito il marchingegno, invece di far digerire quella porcheria alle banche (che l’hanno creata) vogliono rimetterla in circolazione usando l’innesco del sostegno finanziario statale!

Tecnicamente dovrebbe funzionare così: le finanziarie abilitate ad operare con i fondi Ppip (50% privati e 50% dello Stato) acquisteranno sul mercato derivati finanziari fino a coprire l’importo del bailout e li venderanno ai propri clienti. Ovvero, come al solito, li venderanno agli inconsapevoli risparmiatori attratti da un tasso di rendimento superiore a quelli in circolazione, guadagnandoci ancora una volta sulle laute commissioni.

Il cerchio si chiuderà in questo modo: se queste operazioni si concluderanno con un guadagno, le finanziarie restituiranno l’importo del bailout allo Stato e metà dell’utile, se ci sarà una perdita non verrà restituitonulla. Perfetto! Quindi se ci sarà un guadagno, faranno metà ciascuno, se invece ci sarà una perdita, perderà solo il contribuente che paga le tasse (a meno che la perdita sia superiore al 50% del capitale investito!).

Va beh, non è il caso di fare i pignoli. Il progetto accontenta tutti gli operatori interessati, no? Le banche si liberano della porcheria in portafoglio, le finanziarie ricominciano a macinare guadagni (e lauti bonus ai manager), i risparmiatori trovano finalmente sul mercato titoli da acquistare (garantiti dallo Stato!) con rendimenti superiori ai miseri bond, e i contribuenti hanno altro da fare che occuparsi di queste cose, adesso sono già pienamente avviati i campionati di baseball e di football!

Così la giostra ricomincia a girare e... tra cinque o dieci anni al massimo, un’altra cospicua piallata ai risparmi e ai fondi pensione della gente per bene rimetterà le cose a posto per un altro giro sulla giostra!