domenica 25 ottobre 2009

Iraq: attentati as usual

Prosegue in Iraq lo stillicidio di attentati in vista delle elezioni politiche del prossimo 16 Gennaio.

Oggi ne sono avvenuti altri due nel centro di Baghdad contro il ministero della Giustizia e il governatorato provinciale, con un bilancio provvisorio di almeno 90 morti e 600 feriti.

Due esplosioni con un timing ben preciso, poco prima cioè della riunione prevista per il pomeriggio fra i leader iracheni per cercare un accordo sulla riforma elettorale e scongiurare così il rinvio delle elezioni politiche.

Qui di seguito una serie di articoli sugli ultimi sviluppi della situazione irachena.


Nella città divisa di Kirkuk le forze Usa rimangono
di Gabriel Gatehouse - Bbc News - 20 Ottobre 2009
Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq

Baghdad - Si sono riuniti prima dell’alba. All’esterno della stazione locale di polizia, un’unità dell’esercito Usa si è unita a una forza di polizia di circa 300 uomini.

All’interno, il capitano Gene Palka, l’ufficiale americano in carica, stava dando qualche raccomandazione dell’ultimo minuto ai suoi colleghi iracheni, mostrando una mappa della città.

Poi, non appena il sole ha cominciato spuntare, hanno iniziato. Alcune unità della polizia irachena hanno circondato una zona di Kirkuk, mentre gli americani, accompagnati da altre forze irachene, hanno dato il via a quella che definiscono una "operazione di ripulitura", cercando esplosivi e ribelli.

"Entreranno in ogni casa", ha spiegato il capitano Palka. "Vedono chi c’è, controllano i loro documenti di identità, vedono se sono sulla lista dei ricercati. Controllano se all’interno vi siano armi illegali o altro materiale del genere. Se non trovano nulla, se ne vanno".

È un lavoro lento. Dopo oltre tre ore di perquisizioni salta fuori un fucile da cecchino che poi si rivela un giocattolo. Hanno trovato anche una pistola e un fucile kalashnkiov, ma entrambi sono in regola. Non hanno trovato nessuno dei nascondigli di armi che pensavano vi fossero nella zona.

Ma hanno compiuto alcuni arresti. In particolare due uomini hanno attirato l’attenzione del capitano Palka. Uno – ritiene – potrebbe essere un agente di alto profilo di al-Qaeda; l’altro è sospettato di far parte di un altro gruppo ribelle.
"E’ fantastico!", il capitano Palka è evidentemente compiaciuto per il lavoro del mattino. "Questo potrebbe essere un duro colo per la rete di Kirkuk".

Risentimento

Ufficialmente le forze americane si sono ritirate dalle aree urbane nella maggior parte dell’Iraq alla fine di giugno, ma a Kirkuk stanno portando avanti tranquillamente le loro operazioni.

Kirkuk è divisa tra arabi, kurdi e un piccolo numero di turkmeni. Tutte e tre le comunità rivendicano la città e l’area circostante come propria. Gli americani temono che, visto l’avvicinarsi delle elezioni, i ribelli stiano sfruttando con sempre più intensità le tensioni esistenti allo scopo di destabilizzare l’intera area.

All’interno della stessa città, arabi, kurdi e turkmeni hanno vissuto uno accanto all’altro per secoli. In un affollato mercato, Kirkuk dà l’impressione di una città prospera in cui la vita sta tornando alla normalità. Tuttavia, molti abitanti dicono di risentire della continua presenza di americani.

"Gli americani dicevano che si sarebbero ritirati", si lamenta un uomo, "ma sono ancora qui. Le loro pattuglie sono ancora in città. Non è una buona cosa. Dovrebbero passare la mano agli iracheni".

Ufficialmente, la polizia irachena è d’accordo. Il generale maggiore Jamal Tahir è il capo della polizia cittadina. Dice che i suoi uomini sono più che in grado di prendersi cura, da soli, della sicurezza.

"Se si mettono a confronto le operazioni dei terroristi nel 2007 con quelle del 2009, si vedrà una diminuzione nella percentuale di attacchi di oltre l’80 per cento".

Ma, lontano dai microfoni, le forze irachene continuano a chiedere agli americani di affiancarli nelle operazioni di sicurezza all’interno della città.

E una volta tornati nella stazione di polizia locale, si ha una prova delle sfide che devono affrontare. I test biometrici sui sospetti arrestati rivelano che si tratta di casi di scambio di perspona. L’operazione ha prodotto zero risultati.

"Mi piacerebbe trovare ogni giorno un gruppo di ragazzi di valore. Ci vuole molta pazienza, un sacco di duro lavoro".

Il capitano Palka si impegna per vedere le cose in maniera positiva.

"Siamo qui da molto tempo. Questa non appare una vittoria come quelle di Hollywood, ma è pur sempre una vittoria. E’ stata fatta molta strada a partire dal 2003".

Mentre l’oscurità cala sulla città, l'orizzonte si tinge di rosso per le fiammate giganti provenienti dai campi petroliferi. Secondo alcune stime, la provincia di Kirkuk contiene il 4 per cento delle riserve mondiali di petrolio.

La vera preoccupazione per gli americani è che se vanno via, gli arabi e i kurdi potrebbero iniziare a combattere, dividendo in due il Paese.

Perciò, nonostante i miglioramenti nella sicurezza, le forze Usa continuano ogni giorno a compiere pattugliamenti. Contano sul fatto che la loro presenza manterrà separati i due fronti. Senza una fine della disputa in vista, tuttavia, i loro soldati potrebbero restare qui ancora per lungo tempo.


Si tratta ancora per il nuovo governo del Kurdistan
di www.osservatorioiraq.it - 14 Ottobre 2009

A due settimane dal conferimento dell'incarico a Barham Salih da parte del presidente del Kurdistan, Mas'ud Barzani, ancora nessun annuncio ufficiale sulla composizione del nuovo governo della regione autonoma.

Emad Ahmad, vice presidente uscente del Governo regionale del Kurdistan (KRG), nonché membro del Political Bureau dell'Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), uno dei due maggiori partiti kurdi, smentisce che alla base del ritardo ci siano contrasti fra il PUK del presidente iracheno Jalal Talabani, e il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) di Barzani.

I colloqui per la formazione del governo riprenderanno una volta che saranno rientrati dall'estero Talabani e il premier kurdo uscente, Nechirvan Barzani, dice Ahmad [in arabo] al quotidiano arabo al Sharq al Awsat, auspicando che nel nuovo governo del Kurdistan entrino tutte le forze politiche.

"Speriamo che sia un governo di coalizione", sottolinea il funzionario del PUK, che aggiunge che le diverse formazioni politiche hanno espresso in maggioranza la propria disponibilità a partecipare al governo – a eccezione di "Goran" e della Kurdistan Islamic Union.

Quello che si sa già è il numero dei ministeri: saranno 19, divisi in parti uguali fra PUK e KDP, una volta assegnati quelli che andranno agli altri partiti che faranno parte del governo. Quanto alla distribuzione, invece, non è stata presa ancora una decisione definitiva, dice Ahmed al giornale arabo, e se ne discuterà nei prossimi incontri.

Per quanto riguarda gli attuali ministri, secondo l'esponente del PUK conserveranno l'incarico solo in due: il ministro degli Affari dei Peshmerga, Jaafar Mustafa (equivalente al ministro della Difesa), e quello degli Interni, Karim Sinjari.

A detta di altre fonti informate, che hanno chiesto di restare anonime, dovrebbe rimanere anche il ministro delle Risorse Naturali (leggi Petrolio), Ashti Hawrami - notizia però non confermata da Ahmed.

Il funzionario del PUK nega che a rallentare l'accordo per la formazione del governo, e a impedirne l'annuncio ufficiale siano divergenze fra i due maggiori partiti kurdi. "Lavoriamo come una sola squadra", dice ad al Sharq al Awsat, "e la scelta dei ministri verrà fatta sulla base della competenza e della professionalità, e attraverso l'accordo totale delle leadership dei due partiti".

PUK e KDP, uniti in coalizione nella lista Kurdistani, hanno vinto le elezioni per il rinnovo del parlamento regionale kurdo che si sono tenute il 25 luglio scorso, ottenendo 59 seggi, sui 111 di cui è composto il Parlamento, 11 dei quali sono riservati alle minoranze.

La seconda forza politica - Goran (in kurdo: cambiamento), movimento che è stata la vera novità delle elezioni kurde, e di seggi ne ha avuti 25 – ha deciso di non entrare nel nuovo governo e di restare all'opposizione.

Terzo per consistenza parlamentare, con 13 seggi, il blocco "Servizi e riforme" – coalizione di quattro partiti, due laici di sinistra e due islamici.

La decisione da parte di tre dei partiti di entrare nel prossimo governo ha provocato una spaccatura: la Kurdistan Islamic Union, partito vicino ai Fratelli Musulmani che dei quattro è considerato il maggiore, quanto a seguito popolare e influenza, non è d'accordo, e resterà all'opposizione.



Elezioni a rischio rinvio per lo stallo sulla legge elettorale
da www.osservatorioiraq.it - 13 Ottobre 2009

Attenti: a gennaio si rischia di non poter votare, se il Parlamento non approverà la legge elettorale in pochi giorni.

A dare l'allarme è la Missione di assistenza all'Iraq delle Nazioni Unite (UNAMI), che si dice preoccupata per la mancanza di chiarezza che regna tuttora riguardo alla legge, allorché mancano 96 giorni al voto.

La Commissione elettorale irachena (IHEC) ha dato come scadenza ai deputati il 15 ottobre – il che significa tra due giorni. Ma la legge – o meglio, gli emendamenti proposti alla legge elettorale del 2005 - sono tuttora bloccati dalle divergenze fra i diversi blocchi politici su alcuni nodi fondamentali: come votare a Kirkuk, se adottare il sistema "lista chiusa" o "lista aperta", e se considerare l'Iraq un unico collegio, oppure suddividerlo in più collegi.

Adesso, a questi problemi se ne è aggiunto un altro: la richiesta, che arriva da diverse parti, di cambiare la composizione della IHEC – commissione elettorale che in molti ritengono non essere affatto indipendente, ma controllata dai partiti. E, come tale, inadatta ad assicurare una supervisione imparziale del voto previsto per metà gennaio.

Secondo alcuni, se gli emendamenti alla legge elettorale non dovessero essere approvati, la soluzione esiste: si voterà con la legge vecchia – che prevede l'utilizzo della "lista chiusa", ossia il sistema nel quale gli elettori possono scegliere solo il partito, ma non esprimere preferenze. Ma su questo pesano, e molto, le posizioni espresse di recente dal Grande Ayatollah Ali al Sistani, il religioso più influente fra gli sciiti iracheni, che si è schierato apertamente a favore della "lista aperta", come rispetto della volontà dell'elettore.

Il presidente del Parlamento, Iyad al Samarrai'e, è preoccupato in particolare dalla questione di Kirkuk. Nella provincia multietnica, abitata da kurdi, arabi, e turcomanni, le tre componenti non riescono a trovare un accordo su come tenere le elezioni – e infatti nelle provinciali del 31 gennaio scorso a Kirkuk non si era votato.

Samarrai'e invita tutte le parti coinvolte a trovare una soluzione: se non lo faranno, sottolinea in un comunicato sul sito Internet dell'Iraqi Islamic Party, il suo partito, saremo obbligati ad andare al voto con la legge vecchia, dice – "questa è la realtà".

Contro un eventuale slittamento del voto si è espresso anche il premier Nuri al Maliki: le elezioni non devono essere rinviate - "in nessun caso", ha detto ieri incontrando l'ex presidente del parlamento Mahmud al Mashhadani, che nel frattempo ha formato un suo blocco politico di orientamento nazionalista.

Il premier, inoltre, ha invitato il parlamento ad adottare il sistema della "lista aperta".

Intanto per la IHEC è iniziato il conto alla rovescia: se non si riuscirà ad approvare gli emendamenti alla legge elettorale entro il 15 ottobre, si può arrivare al 20 – ma non oltre. Il 18 ottobre prenderà il via la presentazione delle liste dei candidati da parte dei partiti – scadenza: 29 ottobre. Poi stop

Quanto al cambiare la composizione della commissione, su questo il suo presidente, Faraj al Haydari è stato chiaro: "significa niente elezioni a gennaio".


I ladri di Baghdad
di James Denselow* -
The Guardian - 19 Ottobre 2009
Traduzione a cura di Medarabnews

Nell’ultimo mese, numerosi incidenti di elevato impatto hanno evidenziato quello che il General Maggiore Qassim al-Moussawi, principale portavoce dell’esercito iracheno a Baghdad, ha descritto come l’insorgere di “una frenesia di crimine violento” in Iraq. Scrivendo sul Times, Richard Kerbaj ha spiegato come “ognuno stia cercando un modo rapido per fare soldi in Iraq, ma nessuno più dei rivoltosi e dei banditi”. Sicuramente, gli attuali livelli di crimine in Iraq riflettono l’istituzionalizzazione della criminalità, la quale potrebbe compromettere lo sviluppo a lungo termine del paese.

Il percorso che ha portato all’emergere di potenti gruppi mafiosi non ha avuto inizio con l’invasione del 2003. Dopo la guerra del Golfo del 1990-91, e la limitazione della sovranità territoriale dell’Iraq attraverso la creazione di “no-fly zones” e l’imposizione di sanzioni, Saddam ha cercato di mantenere il controllo del paese dando maggior potere a tribù e famiglie a lui fedeli. Il razionamento dei beni attraverso le pratiche clientelari e la corruzione nel programma oil-for-food (petrolio in cambio di cibo) ha incoraggiato pratiche illecite che sarebbero fiorite e diventate molto più sanguinose dopo l’invasione del 2003.

Nel 2002 Saddam ha svuotato le sue prigioni in preparazione dell’invasione americana dell’Iraq. Ciò che ne è seguito ha rappresentato il rintocco funebre dello stato iracheno, simboleggiato non tanto dall’abbattimento della statua di Saddam, quanto piuttosto dal saccheggio di massa e dall’anarchia che ha attraversato il paese.

La smobilitazione delle forze di sicurezza irachene da parte dell’Autorità Provvisoria della Coalizione ha incluso migliaia di guardie di frontiera, rendendo il paese una casa sprotetta e aperta a tutti. Inoltre il tentativo di renderlo istantaneamente un mercato libero ha portato all’abolizione delle tariffe commerciali. Improvvisamente il contrabbando – nato nel periodo delle sanzioni – è divenuto un fenomeno dilagante.

Mentre la Cpa (l’Autorità Provvisoria della Coalizione) era felice di registrare l’aumento del numero di automobili e antenne satellitari che apparivano nei mercati di Baghdad, una delle conseguenze meno pubblicizzate dell’invasione è stata il fatto che l’Iraq è diventato un punto di transito nel flusso di hashish ed eroina proveniente dall’Iran e dall’Afghanistan – il maggior produttore mondiale di papaveri da oppio – e diretto verso i paesi del Golfo e l’Europa.

I vantaggi finanziari dell’essere coinvolti in tale commercio sono stati accentuati dalla disoccupazione di massa e dalla povertà nel paese. Secondo il World Drug Report 2008 dell’Onu, un chilo di eroina si vende a 3 mila dollari in Afghanistan e 3.200 dollari in Iran. Quando raggiunge la Siria quel chilo può raggiungere i 17 mila dollari e i 21 mila dollari in Giordania. In Europa il costo medio di un chilo di eroina supera i 35 mila dollari.

Hamid Ghodse, presidente dell’International Narcotics Control Board dell’Onu, ha spiegato nel 2005 che “non si può avere pace, sicurezza e sviluppo senza imporre un controllo sulla droga”. I gruppi mafiosi iracheni hanno operato largamente inosservati, mentre gli spaventosi livelli dell’ondata di violenza precedente all’invio dei rinforzi americani dominavano la copertura mediatica del paese.

Nel frattempo, questa violenza si è combinata con una maggiore disponibilità ad espandere il mercato interno della droga. Nel 2007 c’è stato un aumento del 23 per cento nell’uso di droghe tra giovani e bambini, secondo Ali Mussawi, presidente dell’ong locale Keeping Children Alive.

Sebbene le istituzioni di sicurezza irachene siano migliorate considerevolmente da quando sono state ricostituite, l’istituzionalizzazione dei gruppi criminali significa che essi sono regolarmente capaci di corrompere e bypassare le dogane e gli ufficiali di sicurezza. Recentemente, in un programma di al-Jazeera che chiedeva: “il governo iracheno ha perso la guerra contro la droga?”, il Dr Abdul Rahman Hamid, un veterinario della provincia di Al Muthanna, ha sostenuto che i trafficanti di droga aprono le gobbe dei cammelli per utilizzarle come nascondiglio per la loro merce illegale.

Le droghe non sono però l’unica fonte di finanziamento per le bande criminali. Ci sono state numerose rapine nelle banche di tutto il paese. In uno dei casi di maggior risonanza, diversi membri delle guardie presidenziali irachene – che proteggono gli alti dirigenti – sono entrati nella Rafidain Bank, di proprietà statale, il 28 luglio, rubando dinari iracheni per un valore di 4,8 milioni di dollari.

Inoltre dal 2003, le classi medie e alte – in particolare – sono diventate oggetto di rapimenti ed estorsioni, spingendo milioni di persone a lasciare il paese. Foto di parenti rapiti si trovano ovunque a Baghdad. Le forze di sicurezza corrotte fanno poco per combattere questi crimini, e le bande criminali rapiscono anche i bambini per poi chiedere un riscatto.

I bambini si trovano anche ad essere vittime del racket della prostituzione. Time Magazine ha riferito all’inizio dell’anno che bambini di 11-12 anni vengono venduti a scopo di prostituzione per cifre che raggiungono i 30 mila dollari. L’articolo riportava le parole di un attivista per i diritti umani che diceva di aver visto “comprare e vendere bambine in Iraq, come se fosse commercio di bestiame… ho visto madri contrattare con agenti sul prezzo delle loro figlie”.

Le indagini del governo iracheno hanno evidenziato che il 60-70 per cento delle attività criminali è opera di gruppi di ex ribelli o di gang a loro affiliate – spiegando così parzialmente la brutalità di alcuni dei crimini. Essendo fronteggiati da un governo debole, impantanato esso stesso in pratiche illecite e nella corruzione (governo che minaccia, fra l’altro, di ridurre il budget per la sicurezza), è facile capire come i gruppi criminali riescano a prosperare.

L’istituzionalizzazione del crimine in Iraq rimane una realtà della vita quotidiana ed una sfida chiave per un governo ancora debole che si sforza di implementare la legalità.

* autore specializzato in questioni geopolitiche e di sicurezza presso il Kings College di Londra; si è occupato di politica siriana, libanese e irachena


L'ENI pronta alla "sfida ambiziosa" del petrolio di Zubair
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 14 Ottobre 2009

Un bel boccone. Linguaggio più colorito non avrebbe potuto utilizzare Paolo Scaroni, l'amministratore delegato dell'ENI, per commentare l'assegnazione alla compagnia petrolifera italiana della licenza per il giacimento di Zubair – il quarto dell'Iraq.

E' soddisfatto Scaroni, o almeno tale si mostra, dopo lo smacco di Nassiriya, il cui petrolio, ormai è praticamente sicuro, andrà ai giapponesi di Nippon Oil.

L'ENI conferma di essersi aggiudicata la licenza per Zubair – a capo di un consorzio che vede come "operatore" la società italiana, e del quale fanno parte anche la statunitense Occidental Petroleum Corporation, e la sudcoreana Korea Gas Corporation.

Ieri ad annunciare il raggiungimento dell'accordo da parte di Baghdad era stato il ministro del Petrolio, Hussein al Shahristani.

Zubair – riserve stimate in 4 miliardi di barili di greggio - è uno dei sei giacimenti petroliferi che l'Iraq aveva offerto nel primo round di gare d'appalto - il 30 giugno scorso, risoltosi quasi in un nulla di fatto. Perché di contratti ne era stato assegnato uno solo: quello per Rumaila, il maggiore giacimento, andato a un consorzio guidato dalla BP, con dentro anche i cinesi della CNPC, la compagnia di Stato.

Allora l'offerta del consorzio guidato dall'ENI per Zubair era risultata la migliore, ma la compagnia italiana e i suoi soci avevano sbattuto la porta, come la maggior parte delle altre major: troppo basso il prezzo offerto da Baghdad – 2 dollari al barile. Loro di dollari ne volevano quasi cinque: niente da fare.

E adesso, che cosa è cambiato? Molto, a detta di Scaroni.

"E' cambiata la struttura del contratto", ha detto ieri da Londra l'amministratore delegato della compagnia petrolifera italiana. "Oggi accettiamo due dollari al barile di fee perché sono cambiati molti aspetti del contratto. Non si possono paragonare i 4,80 dollari che chiedevamo allora con i due dollari di oggi". Se lo dice lui.

Un altro prezzo da pagare per concludere l'affare è stato sbarazzarsi dei cinesi di Sinopec. Facevano parte del consorzio originario, quello di giugno, ma ora che il contratto è stato approvato Baghdad non ne vuole sapere: lavorano nella regione kurda, e quindi sono sulla "lista nera" del ministero del Petrolio.

Contratto di servizio, joint venture

L'accordo concluso da ENI & Partners per Zubair in gergo tecnico si chiama "contratto di servizio": la compagnia, o le compagnie straniere vengono pagate per il lavoro fatto, ma non partecipano agli utili della produzione, a differenza di quanto avviene con i Production Sharing Agreement, i contratti preferiti dalle multinazionali, che gli iracheni vedono come il fumo negli occhi.

Ma dall'ENI ammettono che l'importante è entrare in Iraq. E di buono c'è che il contratto ha la durata di 20 anni, estendibili a 25.

A Zubair, come anche Rumaila, opererà una joint venture: il 25% resta all'Iraq, nello specifico alla South Oil Company, la compagnia di Stato che gestisce i giacimenti del sud, il 75% va alle compagnie straniere. L'ENI comunica di avere il 40%, "con possibili piccoli aggiustamenti nei prossimi giorni".

Sfida ambiziosa

Cosa dovranno fare la compagnia italiana e i suoi partner a Zubair? Aumentare la produzione: oggi si estraggono circa 195.000 barili di greggio al giorno, nell'arco dei prossimi sette anni bisogna arrivare a un plateau di 1,125 milioni di barili.

Scaroni parla di "sfida ambiziosa", a cui "dedicheremo tutto il nostro impegno".

E a chi gli chiede se l'ENI ha intenzione di partecipare ad altre gare in Iraq risponde che "oggi è prematuro dire quale sarà il nostro appetito in futuro".

A Baghdad, il ministro del Petrolio, Hussein al Shahristani, che il 27 ottobre dovrebbe andare a riferire in Parlamento, dove la sua politica è sotto accusa, ostenta soddisfazione. Oltre all'ENI e ai suoi partner, anche la russa LUKOIL e l'americana ConocoPhillips stanno riconsiderando la loro offerta per West Qurna Fase 1, un altro dei sei giacimenti che erano stati offerti a giugno.

Le compagnie straniere che allora avevano sbattuto la porta hanno fatto marcia indietro – la nostra fermezza ha pagato, dice il ministro nel corso di una conferenza stampa. E promette di rendere pubblici i contratti una volta che saranno stati firmati.


Dalla Russia con onore
di Luca Galassi - Peacereporter - 21 Ottobre 2009

I nuovi 'mercenari' in Iraq parlano russo. Con il disimpegno dei soldati occidentali dal Paese mediorientale, l'abbandono dal quale verrà terminato gradualmente entro il 2011, la sicurezza è stata lasciata ai militari e alla polizia iracheni.

Ma il vuoto lasciato dagli eserciti regolari, ancora presenti in zone-chiave come Kirkuk e Tikrit, spesso è riempito dai contractors stranieri. Una delle principali compagnie di sicurezza russe, la Oryol, ha recentemente chiesto al proprio governo maggiori 'libertà' nelle attività di protezione degli interessi russi nel Paese, ovvero un adeguato sostegno legislativo per le loro operazioni all'estero.

I contractor russi della Oryol vengono sottoposti a un duro addestramento in patria, affinchè possano affrontare le insidie e le minacce quotidiane, nel pericoloso 'mestiere' di difesa e protezione di ingegneri, tecnici, imprenditori russi. Ma gli uomini della Oryol, a differenza della più famosa e criticata controparte statunitense Blackwater, non sono considerati, dal punto di vista legale, una 'forza di sicurezza privata', bensì semplici 'consulenti'.

"Non abbiamo uno status, né abbiamo diritti - spiega uno degli istruttori del Centro, Oleg Pyrsin - e se qualcuno ci chiede perchè siamo armat, ciò che possiamo rispondere è 'per autodifesa'. Se succede qualcosa, e dobbiamo sparare, non voglio pensare a cosa, o di cosa, ci tocca rispondere dopo".

Nonostante i rapporti con ministero degli Esteri e ambasciata nel Paese siano eccellenti - tra i membri della Oryol sono presenti anche ex- funzionari dei servizi segreti russi - la necessità è di fornire un quadro giuridico che consenta di estendere le restrizioni imposte all'uso delle armi.

Ma, secondo la compagnia stessa, i limiti entro i quali si è trovata costretta a operare la compagnia di sicurezza, si sono paradossalmente rivelati un fattore positivo, nel rapporto con l'ambiente nel quale si trovano a operare.

L'organizzazione ha fatto più affidamento sulla costruzione di relazioni che non sull'uso della forza. Secondo i suoi dirigenti, al Oryol è vista sotto una luce molto migliore rispetto ai colleghi della Blackwater e al loro eccessivo uso della forza, che spesso ha avuto come conseguenza l'uccisione di civili. "Questo è il nostro punto d'onore", ribadisce Pyrsin.

Ma adesso la Oryol chiede al Parlamento russo di sciogliere tali vincoli, regolamentando la loro attività in modo da concedere agli uomini della sicurezza privata più libertà di azione. La Duma, il Parlamento russo, potrebbe esaminare nei prossimi mesi le richieste delle compagnie private, estendendo anche al di fuori della Russia le condizioni che disciplinano le attività di sicurezza di tali soggetti. I contractors russi non sono una presenza nuova in Iraq. Numerosi contractors sono da anni nel 'circuito'.

Nel 2005, numerosi ex soldati sovietici lavoravano con la Eryn, compagnia di sicurezza privata britannica. Una vera e propria multinazionale, come ormai ce ne sono tante: il team leader era francese, il management britannico e sud-africano. Gli autisti e gli uomini armati, ovvero gli addetti al lavoro sporco, provenivano dalle ex repubbliche sovietiche. Dove certamente non hanno fatto esperienza di diplomazia o 'costruzione di relazioni amichevoli'.