Ma va da sè che finora non ha fatto granchè - puro eufemismo di buon auspicio - per meritarselo.
E' quindi un assegno in bianco, sulla fiducia. Ma è anche un modo per metterlo con le spalle al muro e il futuro dirà se saprà svincolarsi da questa posizione o se sarà colpito "a morte" da ambo i fronti: quello "pacifista" che ha votato e creduto in lui come simbolo vivente del cambiamento, e quello delle lobbies dell'industria bellica che hanno da sempre tenuto in pugno gli inquilini della Casa Bianca.
Comunque sia, Obama non avrà certo di fronte a sè un sereno e tranquillo futuro. Anzi.
Obama vince il Nobel per la Pace
di Maso Notarianni - Peacereporter - 9 Ottobre 2009
Il popolo afgano celebra l'assegnazione del Nobel per la pace al Presidente Usa. L'aviazione americana bombarda per errore la festa pro-Obama: centoventi morti.
L'unica cosa inverosimile di questa notizia inventata è che il popolo afgano festeggi la vittoria del premio dato al Presidente degli Stati Uniti d'America, che sull'Afghanistan scarica (è lui il capo supremo dell'esercito) quotidianamente tonnellate e tonnellate di esplosivi derivati dall'invenzione del signor Alfred Nobel.
Siamo certi di dire cosa a molti sgradita e certamente di essere una voce isolata, ma dare il premio Nobel per la Pace al presidente degli Stati Uniti è come dare il premio di miglior vino dell'anno ad una bottiglia di acqua minerale.
Anzi, è persino peggio. Posto che non si premiano le migliori intenzioni, ma i fatti, oggi gli Stati Uniti sono direttamente impegnati in guerra in almeno quattro Paesi: Iraq, Afghanistan, Pakistan e Somalia.
Poi, ci sono tutti i Paesi in cui gli Usa inviano i loro "consiglieri" per sostenere parti in combattimento, e in cui militari Usa prendono parte attiva ai combattimenti, dalla Colombia alla Thailandia.
Dall'anno della promulgazione della loro Costituzione gli Stati Uniti hanno tanti anni di pace quanti se ne possono contare sulle dita di due mani. Su 220 anni di esistenza, più di 200 li hanno passati combattendo in giro per il mondo. Portando cioé la guerra in casa di altri.
Questo non vuol dire che siamo "antiamericani", semplicemente stiamo ai fatti. E i fatti questo dicono. Obama non è presidente di una associazione Scout, ma degli Stati Uniti d'America.
Obama ha vinto il Nobel "per i suoi sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli", dicono gli insigni elargitori del prestigioso e ricco premio. Forse, lo hanno asseganto ad Obama per aver ribattezzato la "War against terror" in "operazioni di emergenza di oltremare".
Per il resto, non si è visto molto lavoro sulla Pace, da parte di Mister Obama.
Speriamo che l'assegnazione del Nobel faccia sentire il Presidente dello Stato più guerrafondaio della storia recente del mondo il peso della responsabilità che porta sulle spalle. E che, lui che può, metta fine alla guerra e la bandisca per sempre dalla vita di ogni cittadino del mondo.
Obama, apparenza e realtà
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 9 Ottobre 2009
L'immagine pacifista di Obama, frutto della sua trascinante oratoria e di un'efficacissima campagna di marketing politico-mediatico, non regge alla prova dei fatti
Il Premio Nobel per la pace a Obama lascia perplessi. Il presidente del ‘cambiamento' ha mantenuto lo stesso ‘Ministro della Guerra' di Bush (Robert Gates) e con esso tutti gli impegni militari che gli Stati Uniti avevano sui diversi fronti della Guerra Globale al Terrorismo (Gwot), da Obama cosmeticamente ribattezzata ‘Operazioni di emergenza di Oltremare' (Oco).
Iraq. Il ritiro degli Usa dall'Iraq (che verrà completato entro la fine del 2011) non è motivato da ideali pacifisti, ma dalla decisione strategica di liberare risorse militari da quella che Obama ha definito la "guerra sbagliata", per impiegarle sul fonte della "guerra giusta", quella in Afghanistan.
Afghanistan. Nonostante le dichiarazioni sulla ‘nuova strategia', nei fatti Obama sta perseguendo un'escalation del conflitto raddoppiando il numero delle truppe Usa al fronte (da 32mila a 68mila in un anno, con il programma di arrivare a 100mila) e proseguendo i bombardamenti aerei che ogni giorno continuano a fare strage di civili afgani.
Pakistan. Obama ha di fatto esteso l'intervento militare Usa in Afghanistan al Pakistan, intensificando notevolmente i raid missilistici condotti dai droni volanti della Cia sulle Aree Tribali (circa 70 da quando si è insediato, in cui sono morte decine e decine di civili) e costringendo il governo di Islamabad di sferrare massicce offensive militari nelle roccaforti talebane dello Swat (che ha causato una catastrofe umanitaria con milioni di sfollati) e presto in Waziristan.
Somalia. Con Obama sono proseguiti i raid militari statunitensi in territorio somalo per eliminare esponenti di Al Qaeda e del gruppo locale di Al Sabaab: attacchi missilistici o blitz condotti da commando aviotrasportati (come quello dello scorso 14 settembre)
Filippine. Le forze speciali statunitensi continuano a combattere a fianco delle truppe filippine impegnate nelle operazioni militari contro i gruppi armati integralisti islamici considerati legati ad Al Qaeda (Abu Sayyaf e Jemaah Islamiah) che operano nelle isole più meridionali dell'arcipelago filippino.
Altri conflitti. Consiglieri e addestratori militari Usa continuano a operare su molti altri fronti di guerra: nel sud della Thailandia (contro i separatisti islamici di Pattani, anche loro accusati di legami con Al Qaeda), in Georgia (contro i separatisti osseti e abkhazi sostenuti dalla Russia), in Colombia (contro i guerriglieri delle Farc), in Niger, Mali e Tunuisa (contro le cellule locali di Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e in Yemen (contro le milizie di Al Qaeda nella Penisola Araba dello sceicco Nasir al-Wahayshi).
Diplomazia. Anche le iniziative diplomatiche di Obama non sono tutte ‘rose e fiori'. Basta pensare all'ostacolamento di un'inchiesta indipendente sui crimini di guerra commessi da Israele a Gaza durante l'operazione ‘Piombo Fuso', alla provocatoria bufala della ‘nuova' centrale nucleare iraniana di Qom (in realtà nota agli Usa fin dal 2006), alla farsa dell' ‘abbandono' dello scudo missilistico di Bush (in realtà solo rimodulato secondo criteri più moderni), fino al rinnovo dell'anacronistico embargo economico a Cuba.
Il Nobel dei due pesi e delle due misure
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 9 Ottobre 2009
La tattica del “due pesi due misure” nei riguardi della politica estera sul nucleare è valsa a Barack Obama, quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America, il premio nobel per la Pace 2009.
Già, perchè l’uomo del “change” statunitense che solo quindici giorni fa a Pittsburgh ha duramente condannato la notizia, che poi si è scoperto essere non tanto nuova per la Cia, del secondo impianto nucleare iraniano di Qom, non ha adottato la medesima intransigenza nei confronti di Israele.
Che il governo di Gerusalemme abbia a disposizione già da diversi anni un arsenale atomico non è più un mistero per la comunità internazionale.
Come non lo è il fatto, ripreso dal Washington Times solo una settimana fa, che l’intesa madre sulla questione dei propri “diritti” nucleari Israele l’abbia raggiunta con gli Stati Uniti il 25 settembre del 1969. A capo dei due governi c’erano due capi di stato neoeletti. Alla Casa Bianca si insediava, forte di un ampio consenso popolare, Richard Nixon, spalleggiato dal super Segretario di Stato Henry Kissinger.
Sullo scranno più alto del governo israeliano sedeva Golda Meir la prima donna premier della storia di Israele. Le inchieste attuali hanno dimostrato che, pur non essendoci stata alcuna registrazione formale sugli accordi, che tra l’altro entrambe le parti hanno sempre negato, in realtà un’intesa era stata trovata.
A testimoniarlo è una nota dello stesso Kissinger ritrovata nella biblioteca Nixon nel 2007 e datata 19 luglio 1969 che riporta: “mentre potremmo idealmente fermare l’effettivo possesso (delle armi nucleari) di Israele, ciò che realmente vogliamo è impedire che il possesso da parte di Israele diventi un dato di fatto internazionale”.
A quarant’anni di distanza l’accordo tacito fra le due nazioni è stato rinnovato, sempre tacitamente, da Obama che nel maggio di quest’anno ha incontrato a Washington il premier israeliano Benjamin Netanyahu. L’esclusiva del Washington Times si è basata sulle testimonianze di tre “gole profonde” presenti durante l’incontro fra i due leader durante il quale lo statunitense si sarebbe detto disponibile a mantenere in vita le condizioni del ’69 e a non far pressione su Israele affinchè riveli l’effettivo possesso di armi nucleari o firmi il trattato di non proliferazione nucleare (Tnp).
L’incontro di maggio con Obama, e i successivi accordi fra i due leder politici, ha permesso a Netanyahu di ostentare calma anche quando durante il discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite, il presidente Usa ha ribadito uno dei capisaldi della sua politica estera: il disarmo nucleare internazionale. "E 'stato assolutamente chiaro dal contesto del discorso che stava parlando della Corea del Nord e Iran – ha sostenuto successivamente Netanyahu alla televisione israeliana - Voglio ricordare che nel mio primo incontro con il presidente Obama a Washington ho ricevuto da lui, e ho chiesto di ricevere da lui, un elenco dettagliato delle intese strategiche che esistono da molti anni tra Israele e gli Stati Uniti su tale questione. Non per niente ho chiesto e non per niente ho ricevuto [il documento]”.
Poche ore dopo le dichiarazioni di Netanyahu alla televisione israeliana, Barack Obama interrompeva bruscamente i lavori di Pittsburgh accompagnato dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dal premier inglese Gordon Brown per invitare ufficialmente al dialogo il presidente Mahamud Ahmadinejad il quale, poche ore prima, aveva “rivelato il piano nucleare attuato dalla Repubblica Islamica sul suolo sacro di Qom”.
Nell’occasione il presidente aveva definito la scoperta “una sfida diretta” dell’Iran al piano di non proliferazione, rassicurando Israele che per bocca del suo ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, aveva fatto sapere che era necessaria "una risposta senza equivoci" da parte dell’Iran durane il “5+1” di Ginevra.
Quella condanna di Obama vale oggi, a meno di un anno dall’inizio del suo mandato, un premio Nobel alla Pace.
Obama, un Nobel come auspicio
di Fabrizio Casari - Altrentizie - 11 Ottobre 2009
Il Nobel per la pace assegnato a Barak Obama è certamente un segnale positivo per gli sforzi che il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato - per ora solo annunciato - di voler compiere nel ripristinare il riequilibrio nel sistema delle relazioni internazionali. Per la prima volta, il Nobel viene assegnato non per quanto il destinatario abbia fatto, ma per quello che - si spera - farà.
Perché é al sogno, più che alla realtà, che Obama ci ha fatto vivere fino ad ora. Primo paragrafo del sogno é l’abbandono dell’unipolarismo statunitense, che nelle intenzioni della Casa Bianca dovrebbe essere superato da un nuovo multipolarismo, segnerebbe il definitivo abbandono delle tesi neocons (sulle quali le politiche degli otto anni di presidenza Bush si sono incentrate) e rappresenterebbe il fulcro della nuova immagine degli Stati Uniti sulla scena mondiale. Ma il cammino appare tutt’altro che semplice, dal momento che le difficoltà maggiori risiedono, a tutt’oggi, nel rapporto tra Obama e l’apparato militare a stelle e strisce.
In presenza di uno scontro aspro sui temi di politica interna (riforma sanitaria in primo luogo, ma non solo) fino ad oggi Obama risulta essere ancora ostaggio del complesso militar-industriale statunitense e delle diverse lobbies che ne guidano l’agenda politica, interna ed estera.
Il primo segnale della difficoltà che la Casa Bianca ha incontrato nel rapporto con il Pentagono e con la stessa Cia, è stato evidente nella gestione dell’affaire Guantanamo e nella nuova dottrina sulle procedure per le covert actions. Ma non solo. La difficoltà di Obama nel far accettare alle lobbies militari e finanziarie del Paese la nuova politica estera e di difesa, sono state continue ed esprimono il senso di uno scontro dagli esiti ancora incerti.
Obama ha certamente messo a segno dei punti importanti, il maggiore dei quali è la cancellazione del progetto di scudo spaziale nell’Europa dell’Est, che l’Amministrazione Bush aveva fortemente voluto indicando nell’Iran la minaccia, ma pensando invece nella Russia come potenziale nemico da contenere. Era una sorta di riedizione delle guerre stellari di Reagan, che trasformava l’Europa in una gigantesca polveriera atomica e riportava il mondo intero sull’orlo della guerra fredda.
La cancellazione del progetto e la conseguente ripresa dei colloqui con Mosca é stata certamente una vittoria del Presidente. Ma, al momento, sembra essere la sola significativa vittoria della Casa Bianca, di fronte ad un Pentagono che non ha nessuna intenzione di cedere terreno (cioè potere, commesse e ruolo internazionale).
Obama, politicamente indebolito all’interno, è stato così costretto ripetutamente a compromessi con i militari su diversi terreni. Se, infatti, proviamo ad analizzare senza paraocchi le scelte concrete, quelle cioè sul campo e non davanti a telecamere e microfoni, che l’Amministrazione Obama ha compiuto, troviamo quasi esclusivamente una sostanziale continuità con le scelte delle precedenti amministrazioni.
In Iraq e in Afghanistan non si avvertono segnali evidenti di ritiro e di ripensamento della strategia. Piuttosto Obama sembra ancora alla ricerca di una comunione d’intenti con il Pentagono che determina l’assenza, ad oggi, di una exit strategy degna di nome. Che sia cioè praticabile sotto il profilo militare, politico e diplomatico.
Se poi ci spostiamo sull’America latina, troviamo con maggiore evidenza l’affermarsi delle politiche di riarmo e di funzione da gendarme continentale ispirate dal Pentagono, ansioso di recuperare terreno in un continente che Bush riteneva secondario per gli interessi del dominio unipolare statunitense, preferendo dedicare le mire della sua lobby petrolifera al Golfo Persico, all’Asia minore ed al Medio oriente.
A sud del giardino di casa, infatti, gli Usa continuano nel tentativo di recuperare con la forza il terreno perso politicamente negli ultimi anni, quando la rinascita democratica latinoamericana ha portato alle vittorie della sinistra in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Nicaragua e Honduras e con ciò ha abolito, di fatto, il Washington consensus, fino a dieci anni fa stella polare dell’indirizzo politico del continente.
In primis con il golpe in Honduras, da Washington condannato in maniera decisa solo dopo il fallimento di ogni tentativo diplomatico di riportare il legittimo Presidente Zelaya a Tegucigalpa. Oltre ad aver speso più parole di rimprovero per Zelaya che per il golpista Micheletti, restano, gli Usa, l’unico Paese della comunità internazionale ad avere ancora il loro ambasciatore a Tegucigalpa e la loro base militare perfettamente operativa nella collaborazione con l’esercito golpista. Vuol dire qualcosa?
Spostandoci più a sud, emerge con chiarezza il progetto di occupazione militare della Colombia contenuto nell’accordo, recentemente ratificato, tra Bogotà a Washington. Sette basi militari statunitensi in Colombia (alle quali potrebbero aggiungersene altre cinque), frutto di un accordo segreto (prassi inedita per gli accordi internazionali) tra Uribe e Obama.
Le basi, dicono, serviranno a combattere il narcotraffico. Ma nessuna strategia militare contro bande di paramilitari prevede l’uso di armamenti convenzionali e nucleari tattici e migliaia di effettivi. Le basi serviranno invece alla minaccia costante a Brasile e Venezuela, costretti ora a rafforzare i rispettivi dispositivi militari per bilanciare l’area. A questo si aggiunge il progetto della IV Flotta militare della U.S Navy, riesumato da Bush e che serve al pattugliamento del mar dei Caraibi con intenzioni chiaramente belliciste e minacciose verso Cuba e Venezuela in primo luogo.
Persino verso Cuba, nei confronti della quale pure dal punto di vista formale piccoli passetti sono stati compiuti, non si avverte il cambio sostanziale della politica Usa degli ultimi cinquant’anni: il blocco è stato recentemente confermato e Obama si guarda bene dal metter fine allo scandalo della detenzione illegittima dei cinque cubani detenuti nelle carceri statunitensi per aver smascherato i legami tra la lobby cubano-americana di Miami e l’intero apparato d’intelligence statunitense nella programmazione del terrorismo contro Cuba. Avrebbe a disposizione diversi strumenti, da ultimo anche il perdono presidenziale, ma se ne guarda bene dall’utilizzarli.
Obama, insomma, per ora continua a proporre una visione del mondo e sogno americano che mal si concilia con la realtà sul campo. Se non avrà ragione delle resistenze del complesso militar-industriale e non riuscirà a proporre una nuova era nelle relazioni internazionali, Obama rischia di diventare il volto pulito di un regime sporco. Un anno di presidenza è certamente poco per proporre un’altra America per un altro mondo, ma è abbastanza per dimostrare come la vittoria elettorale non sia sufficiente ad aprire una fase nuova nelle politiche interne ed estere del gigante ferito.
Un premio al futuro
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 10 Ottobre 2009
Voto di incoraggiamento più che voto di profitto il Nobel per la Pace a Obama che ha mandato fuori dai gangheri coloro che non hanno mai digerito la vittoria di quest'uomo troppo diverso, ha un merito e un difetto evidenti.
Ha il merito di premiare le buone intenzioni e il difetto di ignorare l'assenza di risultati concreti ottenuti nei pochi mesi - dieci - di presidenza. Di essere, in una parola sola, una scommessa.
Non è la prima volta, e neppure l'occasione più controversa, nella quale questo Nobel, assegnato da un circolo di giudici norvegesi diversi dall'Accademia svedese, che il riconoscimento per la pace viene conferito a lavori in corso o per successi discutibili. Quando lo vinse Lech Walesa, che ieri è stato ingenerosamente tra i critici di Obama, era l'anno 1983 e la battaglia di Solidarnosc contro il regime polacco era ancora molto lontana dal successo pacifico, mentre infuriavano le voci di un'invasione sovietica. E il primo presidente americano che lo ricevette, Theodore Roosevelt nel 1906, era reduce da una guerra coloniale per strappare Cuba alla Spagna, dove aveva condotto bande di volontari, cowboy e irregolari all'assalto delle colline nemiche.
La novità soprendente di questa edizione 2009 non è il suo essere controversa, perché da Arafat a Le Duc Tho, da Kissinger a Mohamed el Baradei, direttore dell'Agenzia atomica internazionale, molti insigniti hanno lasciato più dubbi che entusiasmi. È l'essere stata dedicata alle intenzioni, prima che alle azioni, e l'aver premiato per la prima volta un capo di Stato all'inizio della propria difficilissima avventura. Un azzardo, una puntata a partita appena iniziata.
Il merito di Barack Obama, quello che ha creato l'unanimità di giudizio fra i giudici, è stato di essersi visto ancora come il non-Bush, la non-Coca Cola, secondo lo slogan celebre di una bibita che voleva fare concorrenza alla marca più famosa; come colui che vede, e fa, la guerra come ultima possibilità e non come scelta ideologica a priori. Almeno agli occhi dell'Europa - un po' meno dell'America, dove l'infatuazione elettorale, come sempre accade, si è inevitabilmente raffreddata - Obama incassa ancora i grassi dividendi (oggi divenuti il milione di euro del Nobel) della plebiscitaria impopolarità di Bush nel mondo.
È sembrato un paradosso anche il fatto che sia stato scelto come simbolo di pace proprio nei giorni in cui potrebbe decidere, con molta riluttanza, di inviare altri 40mila soldati in Afghanistan in missione di guerra come gli domandano i generali. Ma il Nobel non ha mai premiato i pacifisti, come a volte si equivoca, piuttosto coloro che alla pace arrivano anche preparando la guerra, secondo il motto latino, o vincendola. Cordell Hull, il segretario di Stato americano insignito nel 1945, era l'autorevole rappresentante di una nazione che aveva appena sganciato due bombe atomiche sul Giappone e condotto una guerra senza quartiere. Ma aveva aiutato a combattere e a vincere un conflitto che appariva indubitabilmente giusto.
Non tutti, vuole dire questo Nobel ancora più controverso, soggettivo e addirittura screditato - per chi non ne condivide le scelte - di quello per la Letteratura, possono essere apostoli e martiri della non violenza come Martin Luther King, madre Teresa di Calcutta, Albert Schweitzer e Aung Sang Suu Ky. In Obama si è voluta riconoscere la volontà di ammettere, politicamente, gli errori ideologici dei predecessori infilati nel vicolo cieco dei cambi di regime a piacere, anche se l'eredità di quegli errori continua a trascinare il nuovo presidente nel pantano dove si è trovato al suo insediamento.
Anche la reazione della Casa Bianca alla notizia, che Obama ha raccontato di avere saputo dalla figlia che lo ha svegliato annunciandogli di essere stato premiato (graziosa bugia per il pubblico, perché era già stato preavvertito dall'addetto stampa Gibbs alle 6 del mattino) porta quel segno di novità, di aria fresca nel palazzo del massimo potere, che il cupo regno di Bush e del suoi ringhioso vice Cheney avevano reso soffocante. "Wow!" è stata la prima esclamazione, da teenager sopreso da un grosso regalo inatteso. E poi barbecue serale, con bistecche e salsicce e hamburger, come un picnic in famiglia con amici.
Un'assenza di retorica, di vanagloria, di rivincita contro il branco di chi abbaia contro di lui, che conforta ancora più delle sue parole di risposta ufficiali, dove ha ammesso che non sono stati i suoi "accomplishment", i risultati, a meritargli il premio, ma "il riconoscimento del ruolo di leadership dell'America".
Possibilmente un'America che somigli più al discorso del Cairo pronunciato da Obama che ai proclami deliranti di "nuovi secoli americani" scritti dai neotrotskisti - poi detti neocon - convertiti alla crociata permanente. Questo premio è semplicemente una "chiamata ad agire". Nel gergo sportivo, Obama ha fatto il gol e ora deve meritarselo.
"Ora vedi di guadagnartelo"
di Michale Moore - www.ilmanifesto.it - 11 Ottobre 2009
Traduzione di Silvana Pedrini
Caro Presidente Obama,
è un fatto rilevante che tu oggi sia stato riconosciuto come uomo di pace. Le tue pronte e rapide dichiarazioni - dove dici che metterai fine a Guantanamo, che riporterai a casa le truppe dall'Iraq, che vuoi un mondo libero dalle armi nucleari, che hai ammesso con gli iraniani che siamo stati noi a rovesciare il loro Presidente democraticamente eletto nel 1953, che al Cairo hai fatto quel grande discorso al mondo islamico, che hai eliminato quell'inutile espressione di «Guerra del Terrore», che hai messo la parola fine alle torture - hanno fatto sentire noi e il resto del mondo un po' più al sicuro considerando il disastro degli ultimi otto anni. In otto mesi hai fatto dietro front e hai condotto questo Paese verso più sane direzioni.
Ma...
L'ironia che ti sia stato assegnato questo premio il secondo giorno del nono anno di quella che sta rapidamente diventando la tua Guerra in Afghanistan non è sfuggita a nessuno. E ora ti trovi proprio davanti a un bivio. Puoi dare ascolto ai generali e far proseguire la guerra (tanto per portare a segno un fallimento procrastinabile già da tempi lontani), oppure puoi dichiarare concluse le guerre di Bush e riportare a casa tutte le truppe. Ecco, questo è quanto farebbe un vero uomo di pace.
Non c'è niente di sbagliato nel voler realizzare ciò in cui ha fallito il tuo predecessore - catturare l'uomo o gli uomini responsabili dell'omicidio di massa dell'11 settembre di 3000 persone. MA NON PUOI FARLO CON CARRI ARMATI E TRUPPE. Stai inseguendo un criminale, non un esercito. Non utilizzare un candelotto di dinamite per sbarazzarti del topo.
Quella dei Talibani è un'altra faccenda. È un problema che deve essere risolto dal popolo dell'Afghanistan - proprio come abbiamo fatto noi nel 1776, i francesi nel 1789, i cubani nel 1959, i nicaraguensi nel 1979 e la popolazione di Berlino nel 1989. Un fatto appare chiaro dalle rivoluzioni ed è che ogni popolo desidera essere libero - e in sostanza essi la devono realizzare autonomamente questa libertà. Gli altri paesi possono essere di supporto, ma la libertà non può essere consegnata dal sedile anteriore dell'Humvee di qualcun altro.
È' adesso che tu devi mettere fine al nostro coinvolgimento nella guerra in Afghanistan. Se non lo farai non avrai altra scelta che rispedire il premio a Oslo.
Saluti
P.S. I tuoi oppositori hanno passato la mattinata ad attaccarti per il fatto che infondi tali buone intenzioni in questo Paese. Perché odiano così tanto l'America? Ho la sensazione che se tu avessi trovato la cura per il cancro stasera loro ti avrebbero denunciato per distruzione della libertà d'impresa visto che in quel caso i centri per la lotta al cancro si troverebbero a chiudere.
Dal canto mio, il fatto stesso che tu ti sia offerto di camminare su un campo minato di odio e che cerchi di riparare l'irreparabile danno creato dall'ultimo presidente non solo ti fa apprezzare da me e da milioni di altre persone, ma può definirsi un vero atto di coraggio. È per questo che hai ricevuto il premio. Il mondo intero conta sugli Stati Uniti - e su di te - per salvare il pianeta. Facciamo in modo di non deluderlo.
"Negretto ignaro" da premio Nobel?
di Antonella Randazzo - http://lanuovaenergia.blogspot.com - 10 Ottobre 2009
L’epiteto non è certo dei più eleganti, anzi, puzza di razzismo e di uno strisciante compatimento. Non è stato certo lusinghiero definire un presidente degli Stati Uniti, “negretto ignaro”. Queste parole sono state dette dal ministro delle Relazioni estere dei golpisti honduregni Enrique Ortez, secondo cui il presidente statunitense Barack Obama sarebbe ignaro o un “negretto che non sa nulla di nulla” (“es un negrito que no sabe nada de nada”).(1)
Sarebbe ignaro di cosa? Presumiamo di quello che fanno i banchieri e le grandi corporations in patria e all’estero. Ovvero quello che hanno sempre fatto: la guerra, i massacri, i colpi di Stato, i saccheggi, ecc.
In effetti, Obama sembra proprio ignaro quando dice “le stesse persone che si lamentavano delle interferenze Usa in America Latina oggi si lamentano perché non interferiamo abbastanza”.(2) Forse non ha capito bene la considerazione lapalissiana che dipende a favore di chi si interviene: se a favore del gruppo golpista e delle lobby che lo sostengono, come è sempre avvenuto, o a favore del popolo. L’intelligenza di Obama sembra scemare quando si tratta di far chiarezza su ciò che è davvero il sistema statunitense e su quello che veramente produce nel mondo.
Eppure in questi giorni ad Obama è stato dato il Nobel per la pace. Emergono alcune domande: se è premiato per la pace allora la guerra chi la sta facendo? Quali sono gli effettivi poteri di Obama? Egli, se lo volesse, potrebbe far cessare le guerre o cambiare il sistema attuale degli Usa così come ha promesso?
Ad esempio, il colpo di Stato in Honduras poteva essere impedito da Obama?
Dietro il colpo di Stato ci sono poteri che dominano da molto tempo. Poteri intenzionati ad indebolire l'Alternativa bolivariana per le Americhe (Alba). Quando l’Honduras è entrato a far parte dell’Alba, nell’agosto 2008, Zelaya voleva concludere un accordo commerciale con l’Avana per importare farmaci generici, al fine di ridurre i costi degli Ospedali pubblici.
Inoltre, tutti i paesi dell’Alba volevano “rivedere la dottrina sulla proprietà industriale”, mettendo in pericolo profitti per la Big Pharma. Questi progetti hanno spinto la lobby delle società farmaceutiche (insieme ad altre lobby) ad appoggiare il golpe.(3)
Scrive Guillermo Almeyra, giornalista de “La Jornada”: "Il golpe civico-militare è stato accuratamente preparato nella base Usa di Soto Cano, alla presenza dell'ambasciatore degli Stati Uniti Llorens.
Questi se n'è andato e si è portato dietro la famiglia, anche se sapeva del golpe in anticipo, per non sembrare troppo legato ai gorilla honduregni, che sono stati formati dagli Stati Uniti, i quali li conoscono dal tempo di John Dimitri Negroponte e dell'Irangate (vennero armati i paramilitari Contras in Nicaragua con armi passate dall'Honduras e pagate con la droga della Cia). Negroponte che è stato, oltre che capo diretto di Llorens, ex segretario nazionale di sicurezza di Bush, ex rappresentante Onu, ex vicere in Iraq, e che non è l'unico cospiratore di alto livello coinvolto in Honduras".(4)
Nell'entourage del golpista Micheletti ci sono persone in passato legate all’amministrazione Usa. Uno è Lanny Davis, che ha partecipato attivamente alla campagna a favore di Hillary Clinton contro Obama, e che guarda caso è il referente del Consiglio honduregno delle Imprese private. Un altro è Bennet Ratcliff, braccio destro dell'ex presidente Clinton. Questi personaggi fanno capire che ci sono stretti legami fra l’establishment statunitense e il colpo di Stato.
E’ ovvio che questi fatti contrastano con l’immagine che Obama ha offerto agli elettori, che certo non può essere conciliata con un atto antidemocratico come un colpo di Stato. Fanno capire che anche Obama non può essere “immune dallo strapotere delle principali lobbies multinazionali”, e che il suo potere non è così esteso come è stato fatto credere durante la campagna elettorale. D’altronde, per farsi eleggere, Obama ha incassato molto denaro proveniente proprio da queste lobby (vedi http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=53).
Almayra dice chiaramente: "L'opinione che 'Obama è un negretto che non sa nulla di nulla’ l'ha formulata il ministro delle Relazioni estere dei golpisti honduregni ma, anche se ancora non la esprimono apertamente, è condivisa da tutti i santi che i gorilla tengono nel paradiso dell'establishment Usa".
Dunque, mentre Obama dice di ritenere la destituzione di Manuel Zelaya illegale e chiede che sia "ripristinato l'ordine costituzionale", altri personaggi legati a figure attive nella sua stessa amministrazione non soltanto sostengono il golpe, ma organizzano l’assetto voluto dai poteri che lo hanno attuato.
Il golpe è stato condannato, oltre che dagli Usa, anche dall’Onu, dall’ Oas e dall’Unione Europea, ma chissà perché il popolo honduregno non è aiutato da queste istituzioni a riprendersi il presidente regolarmente eletto. In questo caso la regola di “esportare la democrazia” sembra non valere.
Obama è stato eletto per la sua immagine “pulita”, intesa come estranea alle molteplici azioni imperiali attuate dalle autorità Usa. Sembrava perfetto per impersonare il nuovo, e il suo colore di pelle faceva credere che non avesse la stessa mentalità di alcuni Wasp (White Anglo-Saxon Protestant, bianchi, anglosassoni e protestanti) che avevano avuto potere in passato, e per questo potesse rappresentare gli interessi dei più deboli, minoranze e oppressi.
Ma oggi la sua popolarità non è più quella dei primi mesi di presidenza. Sotto la sua presidenza sono stati versati trilioni a banche e grandi aziende. La povertà e la disoccupazione non sono state contrastate efficacemente.
Negli Usa la disoccupazione aumenta, e aumenta anche il lavoro precario o mal retribuito. Almeno il 40% della popolazione è sprovvisto di assistenza sanitaria, e negli ultimi decenni il reddito dell'80% delle famiglie si è praticamente dimezzato. Soltanto l'1% della popolazione si è ulteriormente arricchito negli ultimi venti anni, e il divario fra ricchi e poveri si è allargato notevolmente.
Anche la tanto decantata riforma sanitaria non ha dato ancora gli effetti voluti. Obama voleva impedire alle assicurazioni di revocare le polizze nel caso in cui emergesse una malattia preesistente. Voleva proibire che la copertura venisse rifiutata a causa della storia medica di un individuo. Ma il potere tanto esaltato del presidente ha dovuto soccombere per l’intervento di migliaia di spot antiriforma mandati in onda nelle varie Tv locali dei luoghi in cui Obama andava a spiegare le sue ragioni.
In sintesi, diversi medici furono assoldati per sostenere che la riforma sarebbe stata “inefficace e costosa”. Alla fine la commissione Finanze del Senato ha bocciato la proposta relativa ai cambiamenti nell’assicurazione pubblica. Obama sembra intenzionato ad andare avanti, notando che “siamo l'unica democrazia al mondo che non garantisce la copertura medica universale ai suoi cittadini”. Ma l’ultima parola dovrà essere del Congresso.
Obama sembra convinto di poter controllare la spesa pubblica per la sanità, e di poter prevalere sulle lobby dell’industria medica, che sono abituate a spadroneggiare. Secondo alcune stime, le assicurazioni sanitarie avrebbero speso almeno 600 milioni di dollari, negli ultimi due anni, e 130 milioni quest’anno per influenzare le diverse commissioni del Congresso, facendo pressione affinché vengano inseriti emendamenti favorevoli alle assicurazioni.(5)
Dunque, di fatto il potere di Obama sarebbe molto limitato dal potere del Congresso e dal controllo mediatico del gruppo dominante. Egli talvolta appare come un personaggio di facciata, utile a riempire i media di argomenti inutili, come l’abito della moglie, il parente schiavista, ecc. Anche le riforme risultano limitate negli effetti e ostacolate, ma utili a riempire i giornali e i telegiornali, distogliendo l’attenzione da fatti ben più degni di nota. In questo modo i cittadini si illudono di essere informati e che il loro presidente sta facendo qualcosa per risolvere la “crisi”.
Occorre anche considerare che talvolta i discorsi di Obama sono infarciti di vecchia retorica e di propaganda, specie quando parla di “terrorismo” e di guerra in Iraq e in Afghanistan. Ad esempio dice erroneamente che in Afghanistan “Non andammo per scelta, ma per necessità”.(6)
Le truppe per l'intervento bellico in Afghanistan del 2001 furono organizzate per ripristinare la produzione di droga, che era precipitata in seguito agli accordi che i Talebani avevano stipulato con l'Onu nel 2000. Infatti, l'Onu aveva imposto il divieto di coltivazione del papavero. Con l’intervento degli Usa la produzione di droga, dall'1,4% (2001) della produzione mondiale, salì al 78% (2003).
Raggiunse quasi i livelli record del 1999 (79%). Questo vuol dire che per il presidente statunitense incrementare la produzione di droga è “necessità”, oppure egli non conosce nemmeno le motivazioni delle guerre del paese di cui è presidente ( si veda http://www.disinformazione.it/distruzione_afghanistan.htm).
Senza contare poi le inesattezze che Obama dice quando parla dello Stato d’Israele e della situazione in Iraq, negando l’esistenza di una vera dissidenza. Egli con questi discorsi giustifica il livello altissimo di spese militari. Ha promesso pace ma tira in ballo discorsi per giustificare la guerra e aumenta le spese militari.
Fino a che punto Obama è cosciente che il vecchio assetto di potere non può permettergli di mantenere le promesse fatte agli elettori? Che poteri ha effettivamente il presidente statunitense?
Per produrre effetti evidenti, mantenendo le promesse fatte, Obama dovrebbe abolire non poche leggi, in primis quella che riconosce alla Federal Reserve il potere di emettere moneta e di incassare la cosiddetta “tassa sul reddito”. Queste leggi, peraltro, sono anticostituzionali. Per esempio, la legge che attribuisce il potere alla Fed di stampare le banconote è contraria all’articolo 1 della Costituzione degli Stati Uniti, che afferma: “Il Congresso dovrebbe aver il potere di coniare il denaro e regolarne il relativo valore”.
Il candidato alla Presidenza e membro del Congresso Ron Paul ha presentato per ben due volte il H.R. n° 2755 "Per abolire il Consiglio dei Governatori del Sistema della Federal Reserve e della Banca della Federal Reserve, per abrogare la Legge sulla Federal Reserve e per altri scopi". L’abolizione sarebbe molto importante per riformare davvero il sistema, ma questa scelta dipende dal Congresso, e non da Obama.
Se Obama è una persona intelligente dovrebbe sapere come funziona la realtà economica e finanziaria del sistema attuale, e non può credere, come non lo crede nessuno, che il sistema possa cambiare da un giorno all’altro senza toccare le leggi fondamentali che danno potere al gruppo di banchieri e imprenditori di alto livello.
Dovremmo credere che egli sia ingenuo? Che pensi che la “crisi” non abbia nulla a che vedere con l’assetto economico-finanziario attuale? Dobbiamo credere che egli viva con la testa fra le nuvole e che quando fa grandi promesse di cambiamento si aspetti che soltanto le parole producano i cambiamenti attesi?
Per cambiare veramente Obama avrebbe bisogno di cambiare o abolire diverse leggi, specialmente quelle che riguardano i poteri della Federal Reserve e delle Corporations. Ma di fatto il presidente rappresenta il potere esecutivo ed è il Congresso che discute, abolisce o approva le leggi.
Il sistema statunitense, al contrario di quello che abbiamo sempre sentito dire a ritmo serrato dalla propaganda, non è un sistema democratico ma stegocratico (vedi http://antonellarandazzo.blogspot.com/2008/03/lipotesi-stegocratica-parte-prima-il.html Link (Parte seconda): http://antonellarandazzo.blogspot.com/2008/03/lipotesi-stegocratica-parte-seconda.html). Si potrebbe anche definire oligarchico se si crede che le autorità ufficiali siano quelle che hanno un effettivo potere, anche se risulta spesso evidente la loro, che si creda vincolante o volontaria, subordinazione ai cosiddetti “poteri forti”.
Il sistema è congegnato in modo tale da far apparire le autorità come frutto di scelta dei cittadini, e il presidente come responsabile di tutto ciò che viene attuato politicamente in patria e all’estero. Fa parte della propaganda presentare ai cittadini come di fondamentale importanza il cambiamento del presidente o la figura autorevole dello stesso: di fatto egli non potrà modificare il sistema se non avrà almeno i due terzi del Congresso dalla sua parte e ciò risulta molto difficile per diversi motivi.
Certamente egli potrebbe scegliere per motivi di “emergenza” di stampare le proprie banconote senza pagare il signoraggio alla Fed, come fecero Lincoln e Kennedy, ma Obama sa bene che questi presidenti non morirono di vecchiaia.
Come molti sanno, Lincoln, in seguito allo scoppio della Guerra Civile, si trovò in difficoltà finanziarie e i banchieri gli offrirono un prestito col 24-36% di interesse. Egli capì che accettando quel prestito avrebbe accresciuto notevolmente il debito pubblico e rifiutò. Per risolvere il problema decise di far stampare banconote direttamente dal Tesoro degli Stati Uniti. Egli dichiarò: "Abbiamo dato al popolo di questa repubblica la più grande benedizione che abbia mai avuto - la loro propria moneta per pagare i loro debiti".
Furono stampati più di 400 milioni di dollari (senza interessi) con i quali furono pagati soldati e armi. Poco dopo l'emissione dei dollari di Stato, nel 1865, Lincoln fu ucciso. Tutti i presidenti americani che hanno cercato di ridare al paese la sovranità monetaria sarebbero stati uccisi. Kennedy, nel 1963, emise l'Ordine Esecutivo n.11110, e fece stampare oltre 4 miliardi di dollari che recavano la scritta “United States Note” anziché “Federal Reserve Note”, sottraendo alla Fed il diritto di signoraggio.(7) Pochi mesi dopo fu ucciso, e il suo successore, Lyndon Johnson, si affrettò a ritirare le banconote emesse dal governo.
Non bisogna per forza avere una fervida fantasia per capire che persone abituate a pianificare guerre e massacri possano essere capaci di far uccidere chi minaccia di far perdere loro potere e privilegi. E non ci vuole molto a capire che queste persone faranno in modo che la responsabilità dei loro delitti ricada su qualcun altro e accuseranno chi vorrà fare chiarezza di essere un “teorico del complotto”, come se non vi fossero fatti concreti del loro potere (e crimini).
Far credere che tutto sia nelle mani del presidente risulta molto utile. Infatti, alla fine della presidenza di un personaggio, i cittadini vedono che molte cose promesse non sono state fatte e che altre sono state fatte in modo ben diverso da come si voleva. Dunque, ce ne sarebbe abbastanza per capire che il sistema è basato sull’inganno, ma molti saranno irretiti dall’idea che un nuovo presidente possa “aggiustare” le cose. Un presidente che, ovviamente, si presenterà come contrapposto rispetto al precedente, e farà credere di poter mantenere quello che l’altro non ha mantenuto. In tal modo il sistema andrà avanti: l’illusione è rinnovata grazie al potere della persuasione mediatica e politica.
Di fatto il potere del presidente è limitato. Il Potere legislativo è nelle mani del Congresso. Il Congresso ha moltissimi poteri: può pagare debiti, raccogliere imposte, occuparsi di problemi di difesa, prendere prestiti per conto della federazione, potrebbe battere moneta (ma non lo fa perché i candidati eletti sono scelti dai partiti finanziati dalle lobby della Fed), dichiarare guerra, ecc.
Per approvare un disegno di legge occorre la maggioranza assoluta (50%+1 dei presenti). Il Presidente ha potere di veto e può rifiutare di firmare la legge, ma il veto può essere superato approvando la legge con una maggioranza di due terzi in ciascuna camera.
Il presidente può inviare messaggi al Congresso, per sottoscrivere o promuovere iniziative legislative, ma poi tocca al Congresso considerare o meno questi “messaggi”. Il Presidente effettua le nomine di circa 2.000 funzionari esecutivi (tra cui membri del Gabinetto ed ambasciatori), ma molte di queste nomine non passano se non c’è l’approvazione del Senato. Dunque il presidente è condizionato nelle scelte dal Senato, e non deve sorprendere che spesso in alcuni ruoli gravitano sempre gli stessi personaggi.
Si dice che il presidente può stipulare trattati e nominare gli ambasciatori e personale diplomatico, ma anche in questo caso deve avere il consenso del Senato. Dunque spesso non può nominare chi vuole veramente. Per la nomina dei giudici è la stessa cosa: ci deve essere l’approvazione del Senato.
Il presidente assume il ruolo di comandante delle forze armate, ma le norme che regolano tale ruolo sono varate soltanto dal Congresso. Inoltre, il presidente può essere destituito mediante “impeachment” e questo significa che, qualora scoppiasse uno “scandalo” (anche per fatti privati, come avvenne nel caso di Clinton), il Congresso ha il potere di esautorare il presidente ma quest’ultimo non ha potere sciogliere le Camere o convocare elezioni anticipate.
Anche quando la procedura di “impeachment” si conclude con un’assoluzione, la figura del presidente ne esce a pezzi. Clinton fu assolto, ma la sua vicenda certamente ha indebolito la sua figura e il suo prestigio, facendo capire quanto potere può avere il Congresso. In altre parole, basta scatenare una baraonda mediatica, anche su fatti personali (un tradimento negato può esser fatto passare per “spergiuro”) per screditare un’autorità e farle perdere consensi anche su questioni che sarebbero importanti e giuste.
Dunque, il presidente statunitense non si può muovere così liberamente come viene fatto credere. Esistono limiti secolari, che dipendono dal potere, altrettanto secolare, di alcune famiglie, le stesse che hanno creato il sistema politico, che è molto indicato alle loro esigenze, dato che appare come “democratico” ma può essere facilmente controllato da chi possiede molte potenzialità finanziarie e mediatiche, e non si tratta mai, ovviamente, dei semplici cittadini.
Ribaltiamo i concetti e chiediamoci: cosa si deve fare per esautorare il presidente nelle questioni più importanti, costringendolo a mantenere le cose come stanno? Basta avere il controllo sui due terzi del Congresso.
Cosa serve per controllare la maggior parte delle persone che entreranno a far parte del potere politico, giudiziario o presidenziale? Il sistema funziona attraverso la costruzione di immagini mediatiche e della propaganda pro o contro qualcuno. Chi possiede il controllo mediatico può creare immagini mediatiche e dunque personaggi di successo, che entreranno a far parte del gruppo di autorità “controllabili”. Questa è una cosa risaputa, quello su cui non si appunta abbastanza l’attenzione è il fenomeno del “controllo futuro dell’immagine”.
Ovvero, chi riesce a ricoprire una carica importante, deve stare molto attento a non uscire dal recinto in cui il gruppo dominante gli ha concesso di stare. Altrimenti il rischio è la gogna mediatica, com’è accaduto ad esempio a Clinton quando aveva mostrato di voler ascoltare qualche utile suggerimento dell’economista Stiglitz. Com’è risaputo, su di lui si abbatterono diversi “scandali”, anche di natura molto privata.
Oggi non è detto che il gruppo stegocratico abbia bisogno di uccidere fisicamente un presidente qualora lui volesse realmente cambiare le cose. Si potrebbe costringere a desistere, attraverso vari metodi, oppure si può mettere sulla sua testa una spada di Damocle molto potente, data la concentrazione mediatica e le strategie sempre più sofisticate per affossare un personaggio pubblico.
Si può pensare che sia difficile controllare il Congresso, dato che è costituito da tante persone, o che non sia possibile creare un sistema che possa essere sempre favorevole agli interesse di pochi. Ma di fatto è quello che accade, e se analizziamo bene la situazione non appare così difficile se si pensa che è il denaro la base del potere, e che il sistema fa in modo che soltanto alcune persone ne abbiano davvero tanto.
I legami stretti fra gruppo di potere e membri del Congresso emergono spesso. Ad esempio, nel famoso caso Enron alcuni membri del Congresso si comportarono in modo da proteggere gli interessi di chi controllava la corporation piuttosto che dei cittadini. Dal caso Enron emerse chiaro il problema fra ruolo delle autorità di proteggere i cittadini e complicità fra la politica e il sistema economico-finanziario.
Il 22 febbraio del 2002, il General Accounting Office (GAO – un’agenzia investigativa del Congresso), attraverso il suo rappresentante David Walzer, citò in giudizio presso la Corte distrettuale di Washington l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Richard Cheney accusando il National Energy Policy Development Group, che aveva l’incarico, coordinato da Cheney, di stilare un piano nazionale sull’energia, di essere stato “troppo sensibile agli interessi di alcuni gruppi industriali”. In parole semplici, l’amministrazione aveva capito che alla Enron non poche cose erano perlomeno strane, ma avrebbe tenuto il segreto.
Come tutti sanno, la storia della Enron si concluse con il più grosso crack nella storia del mercato statunitense, lasciando non poche questioni da chiarire, non ultima quella relativa ai rapporti fra la società e molti personaggi dell’establishment politico, compreso il Presidente, il suo vice e numerosi esponenti del partito democratico. Risultò che ben 212 membri dei 248 delle commissioni del Congresso che si occuparono delle indagini sul caso Enron, ricevettero finanziamenti elettorali dalla società o dalla Arthur Andersen (revisore del bilancio della Enron).(8)
Qui non si vuole sostenere che i presidenti statunitensi non abbiano responsabilità e nemmeno che siano talmente ingenui da pensare che il sistema americano sia davvero democratico.
In fin dei conti, non è mai diventato presidente un personaggio come Martin Luther King. Si vuole soltanto osservare che i poteri attuali del presidente gli consentono di fare interventi limitati, tanto per dare un’illusione di cambiamento. Ad ogni cambio di presidente, si “rinfresca la facciata” della falsa democrazia statunitense, curandosi di promuovere un presidente che accenda la fiducia nelle istituzioni. Infatti, il sistema, pur essendo una falsa democrazia, si erge sul consenso dei molti. Se la maggior parte dei cittadini si rifiutasse di accettarlo inevitabilmente cadrebbe.
Per questo sono così importanti i mass media, che adeguatamente manipolati e controllati creano il consenso necessario. Alcuni non credono che tutto sia sempre nelle mani dei cittadini e che se non vengono rispettati i loro interessi è perché essi sono inconsapevoli del loro effettivo potere. Ma chiediamoci:
Cosa succederebbe se nessuno andasse a votare? Cosa succederebbe se tutti smettessero di guardare la televisione? Cosa succederebbe se tutti riuscissero a vedere nel gruppo di potere di Wall Street una confraternita criminale? Cosa succederebbe se tutti accettassero di organizzarsi per eleggere i propri rappresentanti politici autonomamente, senza accettare i candidati dei partiti? Cosa succederebbe se gli stessi cittadini decidessero le regole da rispettare nella campagna elettorale, eliminando la politica spettacolo e facendo prevalere i contenuti?
Cosa succederebbe se i cittadini mantenessero la sovranità anche dopo le elezioni, potendo destituire immediatamente chi non ha mantenuto fede al suo programma elettorale? Cosa succederebbe se tutti i lavoratori rifiutassero di lavorare per salari miseri che non permettono la sopravvivenza? Cosa succederebbe se tutti si rifiutassero di acquistare i prodotti delle corporations criminali? Cosa succederebbe se nessuno accettasse più le banconote della Federal Reserve?
Queste sono soltanto alcune delle tante domande che si possono porre per riflettere sul fatto che il sistema attuale è creato e imposto da pochi in virtù del fatto che si fa credere ai molti che esso sia voluto da tutti e predisposto a proteggere gli interessi di tutti, ma non è così.
Delegare ad Obama il cambiamento non è stata una brillante idea. Egli di fatto non ha alcun potere di cambiare le leggi, e dunque non ha nemmeno alcun potere di abbattere il sistema. Forse ha voluto che i suoi elettori credessero che potesse farlo, ma possiamo vedere che non è così: nei mesi del suo governo si sono svolte regolarmente le stesse cose che da sempre l’oligarchia statunitense fa, ovvero guerre, colpi di Stato, inganni, saccheggi, ecc.
Obama, dopo aver ricevuto il Nobel ha detto "Sono onorato". Ma molti sono rimasti assai perplessi, vedendo in questo gesto più una propaganda a favore dell’immagine pacifista promossa a partire dalla campagna elettorale che non un premio basato sui fatti. Qualcuno ha parlato di "Scelta assolutamente bizzarra", considerato quanti attivisti nei movimenti di difesa per i diritti umani lavorano davvero per la pace.
Altri hanno notato lo scarto fra l’immagine di Obama che si vuole promuovere e rafforzare e quella reale. Il giornalista di “Peacereporter” Enrico Piovesana fa un elenco di operazioni militari portate avanti sotto l’amministrazione di Obama. L’elenco non suggerisce in alcun modo questo presunto pacifismo, riportando operazioni in Somalia, Pakistan, Iraq, Afghanistan, Filippine, Georgia, Niger, ecc.
Inoltre è stato fatto notare che Obama avrebbe rinnovato con Israele un accordo tacito stipulato nel 1969 da Richard Nixon e Golda Meir, che permette allo Stato sionista di tenere segreti i particolari sull’effettivo possesso di armi nucleari e di non firmare il trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Mentre il trattamento riservato all’Iran è ben diverso, essendo noto a tutti l’intento di impedire che possa avere armi nucleari. Due pesi due misure. Se questo è operare per la pace…
Insomma, l’uomo del “change” ad un’analisi accurata risulta essere l’uomo del “cover up”, ovvero del dissimulare, del nascondere ciò che sta realmente accadendo dietro un sorriso che stimola fiducia.
E di cose da nascondere ce ne sono parecchie, in primis gli stessi poteri limitati del presidente, che non possono impedire ai soliti noti di continuare a fomentare guerre e a mantenere molti popoli nella povertà.
Un vero “change” richiede l’impegno di tutti e un serio percorso di riforme, che non verranno dall’alto. Credere che possa derivare da un sorriso accattivante, da false promesse o da elogi e premi può risultare rassicurante ma pericolosamente ingenuo.
NOTE:
1) http://www.jornada.unam.mx/2009/08/02/index.php?section=opinion&article=019a2pol
2) http://temi.repubblica.it/limes/in-honduras-il-cambio-di-obama-stenta-ad-arrivare/6290?h=2
3) "Mafias farmacéuticas", http://www.rebelion.org
4) http://it.peacereporter.net/articolo/17084/Honduras%2C+il+golpe+senza+e+contro+Obama
5) http://www.avanti.it/index.php/tempo-reale/93-l-avanti-in-edicola/6868-obama-tra-deficit-federale-e-riforma-sanitaria-anthony-m-quattrone.html
6) Discorso di Obama all’Università del Cairo, giugno 2009.
7) Il Federal Reserve System detta Federal Reserve è la banca centrale degli Stati Uniti d'America, ma è controllata da banchieri privati, che hanno assunto il potere di emettere moneta e di “venderla” allo Stato grazie al Federal Reserve Act, approvato nel 1913.
8) "La Repubblica", 25 gennaio 2002.
9) http://it.peacereporter.net/articolo/18275/Obama%2C+apparenza+e+realt%26agrave%3B
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